mercoledì 5 giugno 2013

Mario De Santis





 
Mario De Santis, nato a Roma nel 1964, si è laureato in Letteratura italiana contemporanea con una tesi su Cesare Viviani. Vive a Milano dove lavora come giornalista radiofonico occupandosi principalmente di cultura e libri. Ha esordito nel  1988 con Italia Radio, per poi passare nel 2001 a Radio Deejay e infine dal 2010 a Radio Capital, emittente del Gruppo Espresso, Qui cura e conduce il quotidiano di libri e arte “Soul Food”. E' inoltre attivo in rete con interventi e recensioni (blog Soul Food, Bookdetector.it, Repubblica.it) e su carta (con il mensile “Poesia”). Come poeta ha pubblicato due raccolte di versi: Le ore impossibili (Empiria 2007) e La polvere nell’acqua (Crocetti, 2012).
 
 
 
La polvere e l'acqua
 
 
In tempi in cui sperimentalismi autoreferenziali hanno condotto la poesia ad una devastante crisi di comunicazione e di interpretazione della realtà, Mario De Santis rappresenta con lucidità e realismo il dramma del proprio tempo e, forse, di ogni tempo, con un’analisi cruda, ma non cupa, del deperimento sociale che restituisce alla poesia una funzione di magistero e di denuncia.
E’ la polvere la protagonista di questa raccolta di poesie.  Al di là del tropo, insito nell’utilizzo della parola, che allude all’esito estremo di ogni vicenda umana, sembra polvere vera quella che si respira nei suoi versi, e non solo quella metaforica che passa nella clessidra del tempo.
Già questa intuizione basterebbe a immergere il lettore nel flusso profondo della storia e a fare uscire la poesia dal ghetto dei minimalismi e dei linguaggi criptici ripiegati su se stessi. Ma in realtà c’è molto di più: c’è capacità di fare poesia, ispirazione genuina e uno sguardo partecipe alla fragilità delle cose, come un invito ad averne cura,  non tanto per salvare loro, ma per salvare noi stessi da un decadimento senza riscatto.
Mario è un ottimo giornalista e, dunque, l’irruzione della forma narrativa nella poesia è quasi obbligata, ma questo non porta all’indebolimento della forma poetica, anzi la rende più struggente e incisiva. Ben presente è infatti nel suo lavoro l’eco della lezione della grande poesia del novecento da Pavesi, a Pasolini, da Sereni e Celan. Occultati da elementi ritmici sbilanciati  si ritrovano spesso perfetti endecasillabi e, specie nelle poesie migliori, un’armonia quasi pascoliana di profonda bellezza.
 
In “sogno è città” egli infatti scrive: “Dove ci sono ancora case vuote, lì finisce Roma./ Si lacera di strade senza targa, dove la notte/ è solo mani di rissa e crudeltà di cani”, in cui l’incipit (Dove ci sono ancora case vuote…), nel suo ritmo crepuscolare, non è meno classico della pascoliana “Dov’era l’ombra or sé la quercia spande…” e il verso successivo (…si lacera di strade senza targa…)  ha l'armonia di “morta, non più coi turbini tenzona”.
È questa struttura di elegante rigore che permette all’autore di immergersi nella desolazione della periferia senza mutuarne la disperazione. Si avverte invece la premura dello sguardo verso uomini e paesaggi, percepiti come attori della medesima tragedia. Le case, la terra, le strade diventano partecipi della vita e della fragilità dei loro abitanti, consumandosi e  perdendosi con loro.
Ad esempio, nella poesia “dove, madre?” si legge:
 
“L’odore della terra che riposa dai lutti
è la sera, e i respiri, l’abbandono. Segnali
marcano la gola, cane senza coda la memoria
mi viene incontro sconosciuta… 

e in "Ovunque, sempre qui": 

“Ovunque, mentre vanno chiusi
dal confine della notte, si consuma
e si ripara il sonno irregolare
dei muratori, che tornando a casa in treno a sera
lasciano case altrui per loro case"

dove il poeta scende dentro il paesaggio, partecipa della sua storia e della fatica di vivere degli uomini, che abitano silenziosi un tempo senza gloria.
Questo senso di marginalità diventa a volte sentimento struggente di esilio dalla luce e, insieme, consapevolezza della sua fugacità:  

"tutto quello che non siamo è lo screzio di luce
nell’oscurità, dopo un pallido tramonto"
 
Altre volte, come nella poesia “Dove mai”, lo sguardo del poeta si apre, abbandonando il treno, su cui metaforicamente viaggia, e si spinge oltre la pioggia, fino al porto, fino al mare:

 “Qui l’onda è la rivolta dell’acqua che colora ritorni
guardo l’aria lavata dal finestrino del treno,
guardo anche il mare di smeriglio, un talismano,
le navi a peso morto, la  prossima salperà
solo domani;...”

con risonanze che mi riportano alla mente alcuni versi di Nazim Hikmet che, davanti al mare di Varna, vagheggia nuove partenze:

Una barca passa davanti a Varna
”Ohilà, figli d’argento del Mar Nero!”
una barca scivola sul bosforo.
Nazim dolcemente carezza la barca
e si brucia le mani.
 


 
 
Il libro è acquistabile nelle librerie Feltrinelli e, on line cliccando sul seguente link:
 
 


Sogno è città, da un disegno di Jan Fabre
 

Dove ci sono ancora case vuote, li finisce Roma

si lacera di strade senza targa, dove la notte

è solo mani di rissa e crudeltà di cani.

Guardo lasciando che nel buio

cadano gocce rumorose. L'acqua

che non ha spessore, che non è diretta,

porta il suo ritmo verso il niente,

diviene danza ossessiva di pianeti.

Nessuno sembra sveglio,qui, o sono tutti oltre frontiera

lungo le scale e i corridoi cammino respirando

tornando a casa a bocca aperta, io solo testimone.

Qui la vittoria o la sconfitta sono sconosciute

resta la ferocia delle cose. Non riconosco nulla

dalla finestra, tutto è uguale, è la polvere che vaga

dunque non c'è nient'altro dietro le nostre

vite: se non avessi l'ombra che si disegna sola,

quella di un cane a cui somiglio, sarei davvero

anch'io una cosa, abbandonata tra gli agguati,

di nuovo nel deserto della strada immobile

nel giorno identico a ieri

che arriva tardi, che non si sbaglia mai.

 
Dove mai

Qui l'onda è la rivolta dell'acqua che colora ritorni
guardo l'aria lavata dal finestrino del treno,
guardo anche il mare di smeriglio, un talismano,
le navi a peso morto, la prossima che salperà
solo domani; un giorno immobile, domani
se il cielo che vigilo è ferito
se scivolo col treno dai decumani, nel mezzogiorno
dei cantieri vuoti, del loro assurdo silenzioso.
E' qui ch'è mia la polvere
che la carne degli anni passati mi fa da patria,
da sangue e da vento, mi rende prigioniero,
mi rende assente dai pensieri.

E' qui che mi vedo con un bambino a gioco,
usa la spada sulla spiaggia, fa naufragato e folle
di chissà che guerra, ma di certo combattuta.

Allora guardo l'ora sottile del pomeriggio,
e sa di ritorno alla vita, che non concede,
e non ha nulla, né visioni né le storie perfette
o dolore: tutto se ne sta nella minaccia infantile e
guerriera, nei colpi dati al ferro: e nei saluti
di viaggiatori in treno che diventano per lui
le mani tese in alto di chi è arreso, finalmente.
Anche per me quell'ora è in quello che si vede.


Ostia Lido - Roma

Novembre nell'acqua
sopra noi, vicini
corre in mezzo a fiori scuri,
su tombe e contro-tempo,
se un'epoca è esaurita;
andiamo lungo piste, marane, campi di battaglia
in ogni spiazzo di periferia
i miei confini da vagabondo ci disegnano una patria.
Da tempo si combatte
con la pura violenza, senza eserciti né armi
è la guerra dell'ultimo minuto
la guerra dei trent'anni in un'assenza, piena:
in quella solo fittizie le invasioni,
vere le vittime soltanto, verissimi gli inermi.



 

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