giovedì 30 aprile 2015

Daniela Andreis





Daniela Andreis, poetessa e giornalista, vive e lavora a Verona. Ha pubblicato raccolte di racconti e fotografie nel libro “La terra piana” (Nuoviorizzonti - 2001) e Maestri del tabacco (Nuoviorizzonti – 2004). Ha vinto nel 2001 il Premio di narrativa Giulio Leati. Nel 2011 ha pubblicato, per Incertieditori la silloge “Aestella” ed + stata segnalata al Premio Montano per la poesia "E' per te"




Ne “La casa orfana” - Daniela Andreis ci fa respirare un’atmosfera di struggente decadimento. Il titolo, ben riassumendo il senso della silloge, ci dice che la casa, gli oggetti, gli stessi muri vivono della vita delle persone che la abitano. Se esse l'abbandonano anche la casa lentamente muore e le cose smarriscono il loro significato, restano orfane, appunto, condannate a una vita di lievi fruscii, di rimpianto del senso perduto.
 “Con te vorrei nascondere qualcosa/ in un posto segreto/ della casa/ e poi scordare che cosa/ e cercare il mistero/ nel rovescio del tetto..” Dimenticare, dunque, ma senza dimenticarsi, affinché ciò che si lascia, sottratto alla banalità del quotidiano, abbia il tempo di ritrovare la sua nascosta magia.
E più avanti, continuando in questo processo identificativo con le cose, ella scrive: ”Confondimi con qualcosa che hai in casa/una tazza, un mestolo forato, e con l’incarto del pane/ che io possa avere una grazia comune …”. in un commovente desiderio di perpetuarsi negli oggetti quotidiani più umili, delegando ad essi la carnalità di un contatto che trascenda la presenza fisica. 
Questa vita nascosta delle cose appare peraltro in ogni verso, sicché alla fine la casa stessa sembra fatta di carne, pura estensione del corpo della poetessa; di lei vive, con lei decade, “Ho una casa di pane, /non è grave,/ solo se piove, /perde la crosta/ un merlo si mangia la porta/ e, piano piano, cade. 
In un’altra poesia Daniela infatti scrive: “se un giorno non mi sentirai più/ non cercare la chiave/ svita le viti, piega i chiodi,/ prendi un’ascia:/ di questo cassetto,/ non lasciare intatto un pezzo”, poiché, andando in fondo a questa identificazione, sente che nulla di ciò che è stato suo potrà sopravviverle.
Ma questa casa, come acutamente osserva Cristina Annino nella prefazione, è un’illusione poiché attraverso essa Daniela “inventa solo varie trasformazioni di se stessa”  E’ infatti lei che libera i ricordi, è lei che chiude le porte e le riapre, che ha paura delle intrusioni esterne e, insieme, le spia: “E' la stessa ora di ieri mattina,/ non le apro, lei non bussa. / Trattengo il fiato,/sa che sono in casa/ so che vorrebbe consegnarmi il verbo non vero, la parola che sovrasta…”. È lei infine la bambina che abita le stanze, che disegna la casa e diventa essa stessa disegno:”La bambina non sa che la casa è un disegno/…e che per sempre abiterà sul bordo tagliato/…”.  Lei è dunque l’unica creatura che può conservarla o abbatterla, trovarv riparo o uscirne fuori trasformandosi “in fiore altissimo che supera di gran lunga il comignolo… e quasi solletica le palpebre all’arcangelo.”.

Poesia intimista, dunque, minimalista nei temi, nel dolore sommesso per lo strisciante decadimento di uomini e cose, nella irrilevanza del quotidiano e, insieme, nella sua vitale centralità. Il verso è di lucida eleganza, armonico, cesellato con cura, perfettamente costruito. Scarno e essenziale, esso è allusivo, mai del tutto chiaro, mai del tutto oscuro. Qualcosa viene detto, qualcosa viene taciuto; come da una porta socchiusa Daniela Andreis lascia intravedere la vita nascosta nelle stanze ma non ci permette di entrare completamente per capire definitivamente se questa casa è per lei un rifugio o una silenziosa prigione.



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Con te vorrei nascondere qualcosa
in un posto segreto
della casa,
e poi scordare cosa,
nel rovescio del tetto,
nel muro grattato,
fingendo di avere un compito
piratesco
- e per sempre, per sempre -
un inabissato tesoro
un inseminato ibisco.

*

La mia casa cade a pezzi,
lascio fare;
sulle sedie crescono i tarassachi
tra le mattonelle sbucano polloni
di fichi o di capperi;
il cielo ha infranto le finestre e rotto le maniglie:
si strizzano d'occhio in un angolo le stelle.

Per andarsene non servirà partire.

*

Confondimi con qualcosa che hai in casa:
una tazza, un mestolo forato, o con l'incarto del pane
che io possa avere una grazia comune,
essere presa in mano o piegata e riposta,
esser gesto quotidiano, ricordo di giochi, di prove di fuochi,
di crosta di latte,
un odore di soglia che avverti già sulle scale
o la presa alla cieca, la sicurezza persino banale
di trovarmi nello stesso posto, in uno stipetto;
esserti persino cara
in qualche momento, quando tutto ti è estraneo
e persino l'albero cambia forma
la chioma notturna diventa cava, grotta, e di fosforo diventano
gli occhi, in fretta, in fretta;
fammi sillaba piena, sensata,
trattami col senso che dà
una riposante maneggevole realtà:
son fatta di un solo mistero,
le spalle controvento,
le impronte cardiache,
segnaletiche, in fila indiana,
là dove smarrisci la tua parola
meridiana.

*

E' la stessa ora di ieri mattina,
non le apro, lei non bussa.
Trattengo il fiato,
sa che sono in casa, so che vorrebbe consegnarmi una busta
il verbo non vero, la parola che sovrasta.
Quando il cielo si smarrisce
e i rami più alti
mostrano i vecchi nidi,
se ne va con il mio giorno,
e mi chiedo
dove starà tutto il tempo,
e perché attendo impaurita il suo ritorno.


*

Ora ti sorprrendi a queste parole,
si sono fatte da sole, come dalla terra scura l'improvvisa erba di marzo,
si piegano verdi sul verde degli occhi
e profumano di piogge;
è d'infanzia la mia mano
l'allungo senza sapere se sei vicino o lontano
vorrei afferrarle, ora, come un sonaglio,
stringo il lenzuolo,
intrappolo il pianto;
dici: - è nostalgia -
già per te divento
prato impaziente
nuovo solco del rimpianto

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