PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA
DON LUIGI DI LIEGRO
DON LUIGI DI LIEGRO
Per avere promosso la diffusione della poesia nel
mondo nel segno della pace e della conoscenza reciproca
Germain
Droogenbroodt (Rollegem, Belgio, 1944) è poeta, traduttore, editore. Ha
tradotto poeti tedeschi, inglesi, francesi e castigliani tra cui Bertold
Brecht, Reiner Kunze, Peter Huchel, Miguel Hernández, José Ángel Valente,
Francisco Brines, Juan Gil-Albert. Nella sua infaticabile attività di
traduttore e promotore di poesia a livello internazionale si è distinto come
vice presidente della Academia Mihai Eminescu (Romania), cofondatore del
Japan Universal Poets Association (Giappone) e ideatore del progetto Poem
of the Week attraverso il quale diffonde poesie di alcuni fra i più
significativi poeti contemporanei mediante una rete di traduttori in 17 lingue.
La sua poesia, che tende a mettere insieme e far interagire culture e sistemi
filosofici dell’estremo oriente e dell’occidente attraverso un linguaggio
limpido ed essenziale, è stata tradotta in 28 Paesi, fra i quali l’Italia, dove
ha pubblicato cinque libri. Per la sua attività di diffusione e promozione
della poesia a livello internazionale e per i sui versi capaci di far
incontrare Oriente e Occidente nel segno della pace e dello scambio reciproco,
gli viene assegnato il premio La Bella Poesia. (Luca Benassi)
Da
“Nella corrente del tempo” (traduzione di Emilio Coco) Raffaelli Editore -
Meditazioni sull’Himalaya
Che altro cerca la parola
nei fondi dell’essere
se non l’insondabile
che tuttavia esiste?
come l’acqua del fiume
dalla mano sfugge
ma nell’anfora
il suo limite raggiunge
la sua forma conserva
e sazia
come a volta la poesia.
**
Risveglio
Con calici completamente aperti
bevono le dature dell’alba
la fresca rugiada mattutina
campane del tempio
che con il loro bianco silenzio annunziano
il declino della notte
scolpita sull’azzurro del cielo
l’orma ostinata degli uccelli
i primi versi di una nuova poesia
1° Classificato con il libro “Rinascere da vecchi”
(Puntoacapo Editrice)
Un
incessante, figurato, religioso risalire il fiume fino alle scaturigini
dell’infanzia, fino al mistero dell’origine, della nascita. E una richiesta di
domanda inevasa sulla nascita, la rinascita, sul mistero della creazione: come
nel sogno e nella domanda di Nicodemo, nel Vangelo di Giovanni: si potrà Rinascere
da vecchi? Questa la trama o ambizione di un libro di poesia tra i più
complessi, consapevoli e risolti di uno degli autori più sinceri e autentici
della sua generazione. Erede del pensiero problematico e cristiano di Betocchi
e di Luzi, Lauretano affronta con le armi della poesia, chiara, comunicativa,
assertiva e di naturale classicità, un lungo percorso deambulatorio, alla
maniera di Baudelaire, attraverso i vicoli, le strade, i borghi e le città del
paesaggio di Romagna: ed è una catabasi nel quotidiano in ombra o al buio,
degradato e abietto, ed è una presa di contatto realistica con le cose e le
persone, e con la ricerca della nominazione delle cose e delle persone. E dalla
Romagna il viaggio si sposta, in ideale continuità con un grande maestro di
casa, Tonino Guerra, nella ricerca di un Oriente, simbolico e favoloso, in una
Russia fisica e metafisica. Libro che convince per ritmo e prosodia, per
incipit di naturale e sorprendente forza e bellezza, per le accensioni
simboliche e per l’inquietudine di riconnettersi all’ancora sopravvivente
umanità dell’uomo: ovvero alla sua anima, alla sua sete e fame di paternità
cristica. Per quel desiderio, tutto umano di andare oltre la notte che incombe,
attraversandola sempre e comunque nella ricerca della verità e della luce. (Manuel Cohen)
Ho
risalito il fiume fino alla casa
dell’infanzia,
alla ghiaia nel cortile
alle
valli profumate di terra e frutta
ho
camminato a lungo sostando poco
e
quasi a caso nei giardini sulle rive
verdi e stretti tra la strada e il fiume.
Arrivato
ho aperto le mani, rilasciato
le
storie, le opere dei miei giorni
e
avrei voluto farti un rapporto dettagliato
ma un
nodo mi serrava la gola.
Perché
tutto ciò che ho fatto e volevo dire
aspettava la tua approvazione
padre,
tutto consisteva in quella
ma ho
sbagliato, il figlio che vive
glorifica
il padre. Così la smetto
di
aspettare e torno nel presente
dove
l’acqua del fiume scende pigra o svelta
l’erba
rinverdisce e secca nei giardini
i
fiori spuntano brevemente sulla riva.
FABIO FRANZIN
2° Classificato con il libro “Erba e aria” (Vydia Editore)
La voce
veneta, affabile, franca e ‘onesta’ di uno tra i maggiori poeti dialettali di
oggi, ci sussurra, confidente, la vita che ancora c’è, che è viva: tra erba e
aria, tra solitudine e straniamento, tra lavoro e perdita del lavoro, tra
affetti e indifferenza. A cantare in questi testi sono cori, suoni di piante e
fiori, voci sopravvissute e tenaci di un paesaggio di natura che resiste a una
continua offesa, a un paesaggio degradato dal cemento e dalla contemporaneità
irriverente e cinica. Sono cori dell’anima, sono anime di un universo che
ancora ha la forza di esprimere ogni giorno il senso insopprimibile della
nascita e della vita. Franzin, con Erba e aria, si conferma poeta dalla
forza civile e dalla insopprimibile richiesta di verità. (Manuel Cohen)
(stradhèe)
‘Sta
strissa scura de ‘sfalto
(che
so èsser stàdha bianca,
‘na
volta, e pì strenta), strada
che
tajia drio ‘e case, el paese,
che
va, dreta, verso ‘a lontana
sagoma
vioéta dee montagne
a bona
biava, zàea, alta, fòjie
longhe
come spade; a zhanca
un
canp a pustòca, un gat biso
in
mèdho, el pass lidhièro dea cazha.
De ‘à el colmo dolzh de l’àrzene,
‘a
spiuma verda dee cassie e po’
(no’
la vede, ma sinte ‘a só santa
presenza)
l’aqua ciara dea Livenza.
E ‘sta
lìnia tiràdha passando via,
te un bàter de zhéjie, pa’ travèrs
aa
strada, ciapa drento tut un mondo,
amór e
memoria, pianura e poesia:
vede
un bòcia, fra ‘e rame, un nido
de
nogarini in man; vede ‘l forgón
de mé
pare, drio un morèr, lu sentà
contro
‘l tronco, ‘a Gazéta rosa soto
el
cul, fumar aa só scarogna; sinte
el
crack dee cane, l’ansàr dea Magalì,
i
becóni rossi tee ganbe nude, là, fra
zhope
e radìse; vede mé fradhél cuzhà
drio
‘a riva, ‘a cana in man, ‘na tinca
che
salta, che sbate ‘a coda te l’erba...
Mondo
mio, caro, de zhièse e tenporài,
de
vose e orazhión, mondo cèo de sói e
paròe,
de sesti poaréti, sì, ma sinceri...
Traduzione
(stradine,
sentieri)
Questa
striscia scura d’asfalto
(che
so essere stata di sassi
un
tempo, e più stretta), strada
che
taglia oltre i caseggiati, il paese,
che
va, diritta, verso la lontana
sagoma
lilla dei monti
a
destra mais, alto e giallastro, foglie
lunghe
come spade; a manca
un
campo incolto, un gatto grigio
lo
attraversa, il passo sospeso della caccia.
Oltre
la curva dolce dell’argine,
il
folto verde delle acacie e poi
(non
la scorgo, ma sento la sua sacra
presenza)
l’acqua chiara della Livenza.
E
questa linea tracciata in corsa
in un
battere di ciglia, sbieca
alla
strada, recinta tutto un mondo,
amore
e memoria, pianura e poesia:
vedo
un bimbo, fra le fronde, un nido
di
lucherini in mano; vedo il furgone
di mio
padre, dietro un gelso, lui seduto
contro
il tronco, la Gazzetta rosa sotto
il
sedere, fumare alla disdetta; odo
il
crack delle canne, l’ansimare della Magalì,
i
ponfi rossi nelle cosce nude, lì, fra
zolle
e radici; vedo mio fratello accucciato
lungo
la riva, la canna in mano, una tinca
che
saltella, che dibatte la coda nell’erba...
Mondo
mio, caro, di siepi e temporali,
di
voci e preghiere, mondo esiguo di voli
e
parole, di gesti umili, ma sinceri...
FERNANDO LENA
3° Classificato per il libro “La profezia dei voli”
(Salarchi Editore)
Lena
è autore originalissimo per l’impronta del tutto individuale e riconoscibile
che ha saputo dare alla sua scrittura. In “La profezia dei voli” il dettato
poetico, che si muove su registri diversi, è potente e metaforico, a tratti
spiazzante. La sua voce è in grado di emozionare per l’autenticità delle
tematiche, trattate con sicurezza e audacia. È questo un libro coraggioso,
dotato di una poetica mai di maniera o meramente estetizzante. Per Lena la
scrittura è infatti un modo per indagare se stesso e il suo rapporto con la
realtà. E quando questa gli si presenta come priva di senso ciò non lo abbatte,
non lo scoraggia, anzi, rende la sua espressione poetica più determinata e
intensa, venata di ironia ma mai doma. (Flaminia Cruciani)
Manicomio
di Aversa
Sono
le 22 di una sera d’ottobre un po’ gelida.
Davanti
a me queste mura altissime
inquietano
allegramente poiché la vera prigione
è il
caos che mi setaccia dentro.
Leggo
scritto Manicomio per giunta criminale
forse
mi merito un luogo come questo chissà,
in
cinque anni d’oblio ho smesso di credere
in
ogni bellezza. Aversa sembra una città estroversa
un po’
però avvitata nei suoi vicoli
poi
erge questo villaggio della follia
come
un cuore che batte
nonostante
la strage del silenzio.
Il
padiglione 5 per un anno
diventerà
il luogo della mia rinascita?
è
difficile pensarlo
quando
vieni circondato da corpi
vivisezionati
dall’elettroshock,
da qui
già si sente
l’odore
estremo dell’emarginazione,
le mie
vene lo conoscono
come
conoscono l’alito dei cadaveri
mai
del tutto seppelliti dall’indifferenza
civile.
I
Siete
il nulla
sotto
il sole apatico
di
questa trincea.
Chiusi
come bestie
ogni
giorno
ascoltate
i passi
per
capire dov’è
l’inizio
dell’abisso.
A
volte è una certezza
essere
domati dalla follia
o solo
un incubo
che vi
abbraccia
con
camicie interdette
stritolandovi
di silenzio.
II
Quanti
dei vostri nomi
per
saziare l’urlo della libertà...
così
vi vedo: già morti
mentre
lungo i viali
andate
in cerca
di uno
sguardo
fedele
al mostro che vi dimora.
«spesso
ci provo
a
rovistare
nel
vostro dolore
ma non
trovo un senso
a
parte un inferno
scottante
come un lager»
è
troppo gelido il verbo
anche
per un cristo crocifisso.
PAOLO OTTAVIANI
Premio speciale del Presidente della Giuria
per il libro
“Nel rispetto del cielo” (Puntoacapo)
La sapiente
e raffinata cultura poetica che abita e riaffiora dai versi di Paolo Ottaviani,
testimonia di una lunga fedeltà e di un continuo riuso attualizzante di modelli
di tradizione e di strutture della poesia che hanno a che fare con le sue
origini volgari o neo-volgari: intrecciando continuamente italiano e dialetto
umbro delle origini. Nei poemetti e nelle trecce, nei geminari in rima alla
maniera degli antichi, così come negli haiku, campeggia un’idea alta, potente e
assoluta della parola: etica testimone dei contrasti e del mutamento in atto
tra passato e presente, memoria della storia e trasformazioni dell’umanità nell’uomo.
Nel rispetto del cielo, è uno dei libri di poesia più alti di questi
anni, tra tensione morale e religio, educazione alla chiarezza della
parola e all’ascolto del mondo. Ultimo canto, forse, di un Universo che
smarrita ha ogni pretesa di bellezza. (Manuel Cohen)
Progemino
I
A
tiempu martello
‘sta
marna dura
co’
l’arte que tello
inpasta
fegura
e può
comma quannu
amiddala
gemma
primisia
de j’annu
resorve
dilemma
primisia
vetusta
e nova
de lengua
recorda
ra frusta
co’
striscia bilengua
que
rapre a lo sangue
re
strai de ru sòle,
parola
que langue
zompa
re tajole,
comma
vorpe roscia
pe’
prata d’inverno
ne’ ra
née floscia
arizza
materno
r’istintu
e ra cóa
puntenno
ra tana
do’
retroa póa
pe’
fame mattana.
Ra
lengua sabina
de
notte fanata
resona
a matina
scaicchiata,
schidiata,
favilla de sugnu
da ‘n suonnu prufunnu
que siente bisugnu
de cantu jocunnu,
favilla
de Venere
que
priestu se muta
in
sparuta cenere
fuscata,
soluta,
favilla
clarita
que
passa manente
mo’
ppropiu fiurita
è
reita a ru gnente.
Progemino
I (Traduzione)
Al
batter dei miei palpiti una creta
fendo
e plasmo con l’arte che modella
lingua
e materia che inventa poeta,
poi
come quando d’improvviso gemma
mandorlo
bianco, primo fior dell’anno,
bella
magia risolve dilemma:
primizia
viva di lingua vetusta,
primizia
morta di lingua novella,
rammenta
corda, biforcuta frusta,
che
taglia nelle carni ed apre al sole
sentieri
nuovi alla parola spenta
e
rifugge con balzi le tagliole,
come
la volpe nei prati d’inverno
teneramente
affonda nella neve,
torna
a saltare, s’arresta e materno
alza
l’istinto, per rabbiosa fame
drizza
la coda e annusa la tana
dove
ritroverà solo fogliame.
Dal
vespro all’alba la lingua sabina
nell’ansietà
del sogno e della veglia
si
frantuma e risuona eco a mattina,
scintilla
che risale dal profondo,
oscuro
desiderio di intonare
diafano
canto, gemino e giocondo,
scintilla
forse più bella di Venere,
caldo
stupore che già si nasconde
tra la
minuta, polverosa cenere,
scintilla
che tra le spire fiorisce,
di sua
sola luce tutta splende,
muove
col vento e nel nulla perisce.
ANTONIO ALLEVA
Medaglia d’onore per il libro “Ultime corrispondenze dal
villaggio” (Il ponte del sale)
Una
raccolta che ha il pregio di creare atmosfere avvolgenti, come se
appartenessero ad un tempo antico, e di un linguaggio carico di simboli e significati. Il
cuore del libro è Li chjacchjarate ‘nghë Batine (Le
chiacchierate con Sabatino) dove le poesie sono in vernacolo
con traduzione letterale e una versione in lingua. Il dialetto fa respirare
tutta l’umanità intorno alle cose e rende più vere le situazioni. Ogni singolo
verso è scelto con accuratezza, nulla è lasciato al caso e si percepisce l’attento
lavoro l’autore ha compiuto per raccontare la vita ed i suoi valori in un
linguaggio popolare e colto insieme, semplice e originale. (Michela
Zanarella)
Martedì
Gennaio. Velo di neve sull’erba e sulla ghiaia
e ci
sono ancora i saltelli dei passeri
verso
le granaglie, verso le molliche del pane.
C’era
ancora la sinuosa bellezza dei cipressi
ancora
il celeste che per foulards, per schegge
tra il grigio perla
e il
bianco che incappuccia le montagne.
Ore
14, minuscolo cimitero di campagna.
A
coronare l’impossibile sogno di Mallarmé
ci
pensa la parola nivea dei lumini eterni,
la
parola paterna dei lumini eterni,
e l’ultimo verso spetta al cancello fermée:
a
quest’ultimo appunto sul tema della fatica
ché
anche qui vigono l’immobilità e il fervore
ché
anche qui mi hanno confessato che attendendono
con
una certa ansia
il martedì
giorno del turno di riposo.
CLAUDIA DI PALMA
Medaglia d’onore per il libro “Altissima miseria”
(Musicaos)
La poesia di Claudia Di Palma è scoperta lessicale,
musicalità, verso che si arrampica sulle nuvole per vedere meglio il mondo, per
capire meglio Dio. Un dio laico però, con cui misurare il mistero dell’uomo, la
contraddizione della vita. Ma anche poesia piena di sonorità, di metafore, di
dolore senza pianto, mai esibito, nascosto tra le pieghe del verso, nel
profondo dell’animo. Poesia insomma. Non a caso in esergo l’autrice riporta un
verso di Mariangela Gualtieri, a cui rimanda l’armonia del dettato, non a caso
Alessandro Canzian, nella prefazione, richiama la visione poetica di Nicola
Vacca, “la poesia non è descrizione ma invenzione”, a cui Claudia Di Palma con
la sua poetica sembra dare ragione.
(Renato Fiorito)
(Renato Fiorito)
Ti
offro la mia bandiera bianca,
ti
porto nel luogo stupendo della
mia
resa, la scrittura, e spezzo
le
parole come pane. Queste
briciole
non hanno pietà
dell’indifferenza.
Si prendono
spietata
cura di tutte le cose.
*
MAURO FERRARI
Medaglia d’onore per il
libro “Vedere al buio” (Puntoacapo)
Un
libro importante questo di Mauro Ferrari che richiama i valori fondanti della
vita, gli affetti, i nomi dell’amore. Tuttavia l’autore non si stacca dalla
realtà, non l’addolcisce, non la rinnega, anzi si scontra con essa, l’aggredisce,
la combatte. La poesia diventa così parola che serve, parola forte che si
incardina nel reale e tenta di trasformarlo. Una poesia alta, dunque, come luce
che si accende e consente al poeta e a noi di “vedere”, nonostante il buio che
ferisce, poiché, come lui stesso dice, è proprio “delle ferite, di tagli e
abrasioni declinati all’infinito, che vale parlare…”. (Renato Fiorito)
Cicatrici
Delle
ferite, di tagli e abrasioni
declinati
all’infinito
che
vale parlare: se è qui,
in
mano il ferro ancora rosso
che ha
marchiato troppi dei suoi giorni,
avrà
guadato i suoi torrenti
verso
corpi illuminati dal sole,
scalato
muri verso fughe o paradisi
e
attraversato campi di sterpaglie
(se lo
contiene un qui,
se
ancora sa aggrapparsi ai giorni)
ma in
questa sera immobile di mezza estate
questa
sera senza sogni
sente
il fremere delle più nuove:
la
persistenza delle lacerazioni
sotto
il velo pietoso delle cicatrici.
*
Ombre
sotto i cavalcavia e nei fossi,
dentro
i capannoni
sventrati
della memoria:
ti
chiedi cosa resta fra le mani,
che
ferro marcisce lento nei prati
e cosa
è disperso in fondo ai cassetti,
perché
è rimasto, proprio quello
del
tanto scomparso; e adesso, a che pro...
MICHELE PAOLETTI
per il libro “Breve inventario di
un’assenza” - Samuele Editore
Nell’opera
compatta ed asciutta di Michele Paoletti Breve inventario di un’assenza
colpiscono la nitidezza e il realismo dello stile, pur trattandosi di versi altamente
lirici ed emozionanti. Si percepisce il grande lavoro fatto sulle parole: non
un verso ridondante, non un’espressione banale si trovano in questo libro
empatico ed emozionante, connotato da un’intensa maturità, tra pessimismo,
speranza e grazia.
Non
è soltanto l’esperienza della perdita che viene evocata dall’autore e il dolore
dell’assenza che la perdita comporta, ma è il punto di vista sulla realtà,
sulla natura e sugli oggetti, quasi modificati da quell’assenza, che viene
perfettamente descritto nel libro. Ed è nelle foglie, nei fogli, nei muri, nei
rumori, nei dettagli insomma, che si condensano i ricordi e il senso della
mancanza: “Cosa conta il ragioniere stanco/mentre annota numeri sui
fogli/incide un’altra croce di mastro/per frenare lo sbilancio dei giorni”
il lungo inventario della vita e della morte attraverso le parole. (Monica
Martinelli)
Cosa
conta il ragioniere stanco
mentre
annota numeri sui fogli
e
incide un’altra croce di mastro
per
frenare lo sbilancio dei giorni
che
spesso si confondono
con
gli zeri a fondo pagina.
Non
conta la piega della bocca
o la
curva crescente della schiena,
la
mattina stinge sempre nella sera
e novembre
è un
mucchio di fatture da saldare,
un
nodo sottile di dolore
che
stringe poco sotto la cravatta.
La
terra intatta
Correre
incontro all’ombra
che si
allunga in fretta
sul
pavimento macchiato
dal
sangue del glicine
piantato
l’anno scorso.
Sentire
l’aria sulle tempie
mentre
il mondo vive
nelle
foglie mute, nel ricordo
della
terra intatta.
Tornerà
il vento a scompigliare
le
cicale, il loro canto di pianura.
Le
pinete caleranno reti
nel
fondo della terra per raccogliere
funghi
semi e briciole,
una
riserva buia per l’inverno,
un
incerto sopravvivere alla carne.
PATRIZIA SARDISCO
Scritto
nella lingua madre dell’autrice, il siciliano, anzi il vernacolo monrealese, “Crivu”
(setaccio) è un’opera prima al confine fra tradizione e sperimentalismo. Come
Bartok - il pioniere dell’etnomusicologia che raccoglieva con il fonografo le
melodie popolari - Patrizia Sardisco è soggiogata dalle influenze orali sicane
e al tempo stesso dalla ricerca linguistica. La poetessa perdura la memoria, la
raccoglie mentre ancora brucia, un attimo prima della sua scomparsa e la
sublima in un codice alto: “a vita rura/fin’a quannu cci ciusci/mentr’ancora
t’abbrucia” (la vita dura /fin quando ci soffi su/mentre ancora ti
brucia). (Maria Grazia Insinga)
cocci
‘i luci c’abballa
e
s’accumenci di ddocu
po’
riri nzoccu e gghié
a vita
rura
fin’a
quannu cci ciusci
mentr’ancora
t’abbrucia
a vuci
crura
cunta
papuli papuli
la
favilla che danza/e se cominci da qui/puoi dire qualsiasi cosa//la vita dura
/fin quando ci soffi su/mentre ancora ti
brucia/la voce cruda/narra tra le vesciche
4
sbrizzìa
cu
mmia
ca
m’arriminu
luna
nt’all’aria
luna
comu a idda
luna
cchiù
nfrusca ancora
mi
scippa ‘u misi
mi ‘mpassulisci ‘u jornu
u jocu
u mari
di
negghia ammuttunatu
ammuttatu
avanti
p’i
comu agghiorna scoppa
pi
comu s’innacchiana scura
senza
scrùsciu
e
curri
appressu
negghia
‘e maluriri
sempri
‘a stissa
sbrizzìa
e ‘un è acqua e curri
strallunata
luna
nova
pi
mustra
dintra
all’età addugghiata
luna
puru
stanotti
assammarata
pioviggina/con
me/che giro in tondo/luna per aria/luna come lei//luna/ancora più confusa//mi
tira via il mese/mi appassisce il giorno/il gioco/il mare/di nebbia
pieno/sospinto in avanti/così come fa giorno cade/così come sale è sera /senza
rumore//e corre/dietro/nebbia e malumore/sempre la stessa/pioviggina/e non è
acqua e scorre/stralunata//luna nuova/pura apparenza/dentro l’età
dolente/luna/pure questa notte/madida
FRANCESCO SASSETTO
Medaglia d’onore per il libro “Stranieri” (Valentina Editrice)
La
poesia di Stranieri di Francesco Sassetto si offre come sguardo lucido e
penetrante nei confronti dell’altro, il diverso, con il quale poter scrutare
dentro la propria intimità e l’ambiente nel quale si è inseriti. Sono versi che
indagano sulla relazione e osservano con matura consapevolezza un mondo fatto
di relazioni sfibrate e dipendenze, nelle quali l’incomprensione e la violenza
si elevano come muri, anche fra coloro che sembrano più vicini. Questo libro
racconta di una Venezia melanconica e vaporosa, dove incontrare badanti,
anziani, baristi, genitori, studenti, in un’esistenza divisa fra terra e acqua,
fra rassegnazione e stupore. Libro forte nelle immagini e nelle metafore, ricco
di poesia dai toni civili, Stranieri si impone con una lingua limpida e
chiara, sia nell’originale in dialetto che nella traduzione in italiano, dando
conto di un autore maturo nel pensiero e sorvegliato nello stile (Luca
Benassi)
Aqua
alta
Xe
sparìo da tre mesi Gigi
no ‘l xe più drìo del bancón
del
bar a Rialto a far cafè a manéta, a spòrzer
svelto
le brioches a quei che speta el batèlo de le sìe
de matina,
che core al lavoro a Mestre o più in là.
‘Na
macia de luse nel scuro quel bar pien de gente,
de
spente, borse e giornali e comande sigàe, ombre
che va
fora e dentro de furia
e i do òmeni in traversa,
oci e
man che core sincronizài, un casìn de vose
nel
vapór de le machine soto pressión.
Xe
sparìo da tre mesi, cussì
e
nissùn dise gnente.
Ancùo
tuti discóre se l’aqua rivarà a sentovinti, le previsión le par propio sbalàe,
no xe siròco,
la luna no xe quea bona,
dise
un vecio butando l’ocio a l’onda su la riva
darénte
che desso s’ingrossa e se slonga.
Alta marea (traduzione letterale)
È sparito da tre mesi Gigi
non è più
dietro il bancone
del bar a Rialto a preparare caffè uno dopo
l’altro,
a porgere svelto le brioches
ai clienti che attendono il vaporino delle sei
del mattino, che corrono al lavoro a Mestre o più
lontano.
Una macchia di luce nel buio quel bar affollato
di spinte, borse, giornali e ordinazioni gridate,
ombre
che vanno fuori e dentro di fretta
e
i due camerieri col grembiule,
occhi e mani che corrono sincronizzati,
un frastuono di voci
nel vapore delle macchine in pressione.
È sparito da tre mesi, così
e nessuno dice nulla.
Oggi tutti discutono se l’acqua salirà a
centoventi,
le previsioni sembrano proprio sbagliate,
non soffia scirocco, la luna non è quella giusta,
dice un vecchio dando un’occhiata all’onda sulla
riva
di fronte che ora
s’ingrossa e s’allunga.
FRANCESCA SERRAGNOLI
Medaglia d’onore per il libro “Aprile di là” (LietoColle)
“Aprile di là” è una
raccolta di poesie che si sviluppa per un lungo arco temporale; alcune
provengono da precedenti libri, altre esprimono l’attuale punto d’approdo della
poetica di Francesca Serragnoli. In questo viaggio l’animo cambia, si condensa
lo stile, variano gli argomenti mentre la vita sperimenta il dolore, la
malattia. Un libro, dunque, immerso nella realtà ontologica, su cui l’autrice
stende un velo denso di parole che,
sprofondando all’interno dell’io, tracciano un percorso che non è quello
lineare del tempo, ma quello accidentato dell’anima, percorso che non prevede necessariamente
un traguardo, se non quello di un “aprile di là”, cioè di un oltre sconosciuto
a cui solo l’anima a volte può approdare, poiché come dice Francesca “Luccica come una gabbia il mio futuro/… Lui
resterà/ per sempre fiorito/sopra un terrazzino/ sporgerà felice.” (Renato Fiorito)
Arrivavi
come un venticello
con
valigie non per rimanere
ti
stancavi affaticato
rimani
ancora un poco
dicevo
al sangue sulle braccia
posato
come una Pietà.
Spegneva
Dio con due dita
il
lumicino brevissimo.
La
morte diventava arietta,
cosa
di fiato
alito
di vento sul volto
immobile
della statua
inclinata
sul fondale
che
sente le braccia sgretolarsi
il muschio
in bocca
sul
capo ammucchiarsi le foglie.
Ti
rivedrò un giorno?
Ti
poseranno vicino
ricorderai
d’avermi conosciuto
sull’orlo
dell’acqua
fiorisce
un tremito
l’inizio
di un ricamo infinito.
L’eterno
dondolare delle madri
muove
le onde.
ANNA ELISA DE GREGORIO
Menzione speciale di merito per il libro “Un punto di Biacca” (La Vita Felice)
La
biacca è un colorante bianco ormai in disuso che si usava nelle pitture a olio.
Anna Elisa De Gregorio la richiama nel titolo, volendo certo alludere alle tele,
da Cimabue a Vermeer, da Rembrandt a Velàzquez, a cui ispira nella prima
sezione del libro le sue poesie, ma forse anche al procedimento classico,
accorto, con cui con pazienza e sapienza costruisce i suoi versi. Essi, pur
nella modernità dell’impianto e nell’attualità della sensibilità linguistica,
conservano infatti il gusto dell’armonia, delle perfette sonorità, del ritmo
suadente. Come in un sogno confidato sottovoce vengono dissepolte le vicende e
i colori del mondo, le nascoste brutture e le aspirazioni alla bellezza che la
mente coltiva nonostante il caos che la opprime: “in un paesaggio di auto e
di cemento/si brucia per silenzio// L’attesa è una lunga fila estiva/ nelle
stanze protette degli Uffizi…” - da Ballatetta in Toscana (Renato Fiorito)
Il
cerchio interrotto
Un
punto, come luce,
di
biacca: goccia per goccia dipinge
le
lacrime e separa
il
pittore sul volto di ciascuno.
Di un
povero ragazzo è il mio pianto,
nascosto
il viso e scuro, malvestito:
non
troverò conforto
con il
tempo, che qui non ha dimora.
Allacciato
alla croce,
sostengo
il braccio del Cristo deposto,
che
verso la madre è tutto riverso.
Pure
fra loro resta una distanza.
Dico a
Giuseppe dal sontuoso manto:
«Accostiamo
il figliolo
a
Maria, che arrivi a carezzarlo.»
Ma nei
secoli lui non può sentirmi.
MAURIZIO MANZO
Menzione speciale di merito
per il libro “Rizomi e altre gramigne” - Zona editore
per il libro “Rizomi e altre gramigne” - Zona editore
Versi lunghi
apparentemente prosastici, dalla formularità ritmico-prosodica, da basso
continuo o mimetico, quasi a dire di un presente, attraversando un quotidiano
fisico e materico, ostile e degradato. Il libro di poesia di Manzo convince e
si accende nell’uso sapiente della metafora ariosa: «si arrotola il mare e il
vento», o per l’insistita e irrinunciabile interrogazione che fanno di questo
lavoro un autentico testo di poesia: «c’è sempre una domanda da domare». (Manuel
Cohen)
Vapori
La
lucertola disfa ragnatele, scuote i riflessi alle trame dei ragni
così
ciò che sfiora spesso fa strame, l’aria che filtra distoglie confonde mi
ricordo di un abbraccio e poi il caldo, non possiamo trattenere il
[tepore
è come
il vapore fumo che bacia, le mani passano sullo stesso punto
si
sposta la luce e anche tu sparisci, ci sei ma non si accende più la luce.
SEZIONE POESIA INEDITA
SALVATORE PAGLIUCA
1° classificato con la poesia “L’ venij spiss la fevre”
Nel rapido volgere di pochi versi, l’autore lucano tratteggia con levità e realismo l’esistenza esile e inferma di Teresa. Pennellate di figurativo e di figuralità naturalistico-simbolista sono l’humus della migliore poesia in dialetto espressa con fresca musica in questi anni. Sono immagini semplici, eppure straordinarie e toccanti, dimesse eppure così nitide e precise, che raccontano un mondo indifeso e sofferente, testimoniano l’universo sensibile degli uomini e degli animali, nel microcosmo di affettività e dolore, oltre i vetri, irradiate da nuova luce. (Manuel Cohen)
L’
venij spiss’ la frev’.
Na
frevecegghj respettos’
ca s’
accuaj a liett’ ndo rr’ cupert’.
Teres’
crescij com’ a nu spalic’.
Cuntann’
p’ lu sangh’ ‘nfiett’,
na iastem’ ca t’ lass’ scampicà
iuorn’
p’ iuorn’ r’ paturnij.
Nu
grassical’ la stanz’ e Teres’
s’allongh’
senz’ ammuin’.
Quacch’
vot’ l’ piac’ tuzzulià chian’
a
l’auciegghj e po’ dret’ a rr’ lastr’
scazzà
rr’ našch’ p’ struppià la luc’.
Le
veniva spesso la febbre. / Una febbricola dispettosa / che si nascondeva a
letto tra le coperte. / Teresa cresceva come un asparago. / Dicevano per il
sangue infetto, / una maledizione che ti lascia vivacchiare / giorno dopo
giorno di malinconia. / Un semenzaio la stanza e Teresa /cresce senza fragore.
/ Qualche volta le piace bussare piano / agli uccelli e poi dietro i vetri/
schiacciare il naso per deformar la luce
ELENA RIBET
2° Classificata con la poesia “Eri il mio libro”
Poesia dal
passo lungo, scandita in sequenze di versi che si aprono a cadenze di prosa.
Testo che inscena un teatro di parola, comunicativa, colloquiale e riflessiva.
Intelligente e intuitivo l’accostamento tra il legame affettivo e l’oggetto
libro. Una prova matura per una voce certa. (Manuel Cohen)
Eri il
mio libro preferito.
Quello
che si torna a rileggere e sfogliare, quello affezionato
da cui
si ricopiano le frasi sul diario segreto.
Eri il
mio libro. Saperti, scoprirti, sfogliarti,
ascoltare
di volta in volta ogni pagina come non l’avessi mai letta.
Comprenderla
ogni volta diversa
trasformarsi
insieme, attraversare le pagine
con le
emozioni e il tempo. Leggerti.
Rileggerti.
Sentire il suono familiare a ogni parola, attendere
di
girare la pagina
accompagnata
dai sensi, dal tatto della carta, dalla luce
dell’attesa
di una storia condivisa.
Eri il
mio libro.
Quello
che potevo conoscere,
che
potevo toccare,
perché
no, anche usare,
custodire,
tenere sotto il cuscino, all’occorrenza,
libro
amico fedele, pronto a essere aperto.
Aprirsi
e toccarsi, accorgersi
giorno
dopo giorno che il libro è vivo
che il
libro cambia
cambia
la storia e tu non avevi capito,
non
avevi letto bene, volevi possedere ciò che non può essere posseduto.
Dimenticare
il libro su uno scaffale
all’onore
della polvere
ricordarsene,
ritornare a sfogliare, a spogliare il non senso dell’assenza.
Il
libro vive. Volta le spalle.
Vuole
una vita propria, ha gambe, braccia, un cervello e persino un cuore
privo
di appartenenza. Racconterà storie, altrove, chissà.
Mi
resta ciò che del libro imparai a memoria.
Mi
resta nel cuore l’amore per le sue parole.
Mi
resta nel cuore un amore non corrisposto, amore che non può essere ricambiato.
Un
amore oggetto, soggetto, feticcio,
amore
imperfetto e intangibile.
Un
amore-idea.
Ho
studiato molto e male, amato molto e male.
Ma tu
eri il mio libro.
E io
ero il tuo, rimasto chiuso in un cassetto.
LUIGI BALOCCHI
3° Classificato ex aequo con la poesia “Sorpresa”
Delicatissima
poesia, questa di Luigi Balocchi che riesce a trasmettere, con poche nitide
pennellate, una storia, un momento, l’evidenza di un dolore. Struggente è l’immagine
iniziale della donna che trattiene tra le mani un cigno rotto, metafora di un
sogno andato in frantumi da cui non sa separarsi. Ora che è ridotto in pezzi,
insieme alla luna e alla vita, non ha più parole, né gesti, per rimediare alla
perdita. Può solo continuare la vita usuale: accudire alle faccende domestiche,
aprire un cassetto, stirare uno straccio, come se nulla di veramente grave
fosse accaduto e il dolore potesse essere sepolto senza un grido. Tutto apparentemente
sedato dunque, se non fosse per un gesto di tenerezza sfuggito al controllo, un
ricordo fastidioso come un coriandolo, il fruscio appena percettibile della
vita che continua. (Renato Fiorito)
Ora
dimmi perché sei sola, con quel tuo cigno rotto tra le mani.
Anche
la luna a volte cade in pezzi.
La
luna il cigno i sogni di una vita che pur deve bastare.
Ed è
così che giudiziosa rimetti a posto le cose di casa, apri un cassetto, stiri
uno straccio.
Tutto
è in fondo tranquillo, sedato.
Tutto,
a parte quella carezza, il coriandolo fastidioso, un foulard nel vento.
Tu sai
che era amore.
FRANCESCO GUAZZO
3° Classificato ex aequo con la poesia “Il giardino”
Un giardino
della memoria con i suoni e i colori dell’infanzia, quello di Francesco Guazzo.
Una similitudine costante che sa di metafora dell’esistenza e della scrittura
stessa, riaffiorante da uno scrigno custodito come dono, come destino. Poesia
domestica e intimista, e tuttavia poesia ad alto grado di significazione e di
esigenza comunicativa. (Manuel Cohen)
Il
giardino di cui tutti vedevamo le foto
aveva
voce, ed era come sentirsi dire
–
piano – il tempo di aspettare, era
come
fare un esercizio con la mano,
ma un
esercizio lento di piena adesione,
come
aprire un cassetto dopo molto tempo,
e
trovare lo stesso disordine ospitale,
cercare
una cosa fra le tante, tentare,
come
da bambino, uscire dai bordi,
con il
colore
MONIA CASADEI
Medaglia d’onore per la poesia “Vieni a cercarmi dentro
una fessura”
Una
poesia originale questa di Monia Casadei dove ritmo e suono diventano
incalzanti e avvincenti nel susseguirsi di immagini che descrivono un’atmosfera
suggestiva e inquietante. La
poetessa esprime con vigore un disagio esistenziale nel suo bisogno di un
nascondiglio, una tana, una fessura dentro cui proteggersi dall’aggressività
del mondo esterno o forse di un dolore penetrante, contro l’invadenza del certo
e dell’ovvio, alla perenne ricerca di un “altrove” dove “il cuore
scoppia d’infinito”. (Monica Martinelli)
Io
esisto sempre in una fenditura,
nella
fessura aperta lungo il muro
-
crepa da cui si scorge l’orizzonte.
Respiro
nello iato, dentro la spaccatura,
in uno
strappo, nello spioncino aperto
-
ancora incuriosito di confini.
Vivo
nel taglio obliquo d’uno sguardo,
nell’apertura
avida di varchi,
nel
foro, nel pertugio, nell’occhiello.
Io
sono in tutto quello che non c’è
- che
nei miei occhi è prossimo a venire -
e
abito l’altrove delle prode,
al
pari del maroso per la rena.
Mi
trovi dentro l’incavo del collo
- in
cerca di profumi o di promesse -
nel
solco della terra per semenza,
nell’interstizio
arioso tra incisivi,
nello
spiraglio celibe di mura.
Sono
nell’intervallo muto tra due verbi,
in
un’intercapedine del prisma,
ascosa
tra i segreti delle toppe,
sospesa
a serrature d’altri vani
-
forse a spiarvi il gesto dell’attesa
o a
rovistarvi un’opportunità.
Invece
tu mi cerchi lungo i muri,
nelle
certezze solide di rocce,
tra
calcestruzzi e intonaci sicuri
- come
s’io avessi un’anima di calce.
Frughi
dentro i tinelli chiusi tra pareti,
nell’emisfero
levo del cervello,
nell’evidenza
stabile del mondo,
nei
giorni fenomenici di sole
- di
pioggia o neve o fulmini precisi.
Mi
pensi nei poliedri con la base
-
supini monoliti sul ripiano -
dentro
equazioni certe di sé stesse,
nei
quanti che s’allineano costanti
- io
che ricordo un atomo impazzito.
Esplori
nella fame e nell’arsura,
dentro
la biologia di cellule e neuroni,
nelle
cloache chiuse sull’asfalto
o
dietro l’equilatero imparziale.
Mi
cerchi nell’altrove del mio altrove,
saldo
di sguardi - ed anche di parole -
mentre
io molle oscillo nella brezza,
con
l’occhio già incantato d’altri luoghi
e il
cuore che mi scoppia d’infinito.
LAURA BONAGURO
Medaglia d’onore per la poesia: “Magnificazione di voli
radenti”
Laura
Bonaguro sperimenta, non segue le regole, ma ha le sue regole, quelle che si è
data, con il gusto di sorprendere, destabilizzare e, dunque, cercare nuovi topoi
nel nucleo delle contraddizioni dialettiche, con lampi sul mondo, sulla vita,
sulla forza del corpo, che appare e scompare, come ombra dal verso. Non sono
divinità immobili le regole. Il gusto di Laura è cambiarle, capovolgerle, nella
loro sintassi e forse anche nella rigidità della vita sociale che sente
stretta, nella speranza che la loro fine possa essere un modo “per diventare
farfalla e ridonare a sé un ventre prospero…” (Renato Fiorito)
Nessun tasto oggi perché non piove mai
dove piove
sempre. E sedersi a contemplare il
provvisorio e masticare
unghie nell’imbarazzo del caos ti sporca
le scarpe
con le mani tocchi niente che possa
seccare.
Ma dove scappi già fuori dalle
imbracature e dissalata!
Morire per diventare farfalla è ridonare
a sé
un ventre prospero con altre suole
slacciate
da ogni situazione convergente sul
petto. Poi
premere lo sterno lasciando evadere l’aria
scoprirsi che stona fianco al passato infine
ecco il caldo tiepido contatto del
valico la muta
quell’immobile sarcofago di pezza il
cambio si nota
è presto per dire nuovo serve slargo e
corpo
dimenticanze al sicuro o cremazioni
epiche e saluti.
Le scaglie a ricoprire la vita che la
stoffa da sola non plasma
e trattieni fuori il dentro ma si passa
da fuori a dentro
seguendone il ricamo congiunto fino a la
foce. O la siepe…
LAURA CORRADUCCI
Medaglia d’onore per la poesia: “C’è il volare sicuro”
Una
poesia breve ma di intense atmosfere, questa di Laura Corraducci, nessun fatto,
nessuna descrizione, solo un pensiero che si fa sogno e inventa ombre, la notte
che si fa suggestione e suggerisce immagini, dando forme confuse ai desideri.
Una donna che obbediente si china alla notte, il silenzioso volo degli
uccelli notturni, una vela che trova finalmente riposo e ferma l’eterno
navigare affinché abbiano tempo i corpi di allacciarsi, la musica di suonare, l’amore
di celebrare i suoi eterni riti. (Renato Fiorito)
c’è il volare sicuro degli uccelli
nel lento ammainarsi di una vela
e la sacra certezza della donna
che obbediente si china alla notte
visti di lato paiono amanti
due corpi allacciati dal vento
la musica dolce di due silenzi
CALOGERO CURABBA
Medaglia d’onore per la poesia “Tradisci l’attesa”
Calogero
Curabba, poeta siciliano che vive in Sabina, mette coraggiosamente al centro
del suo linguaggio il bene e il male. La lezione che si avverte è quella di
Sereni e di Fortini. Ma i versi, tra acribia e naturalezza, sono originale
documento di un’attesa, di un “esilio senza terra”; versi intesi come
incessante mormorio che teme il punto: “l’assenza di traccia”. Un’aura sacra
percorre le parole - “assomiglieremo alla nostra alleanza” - ed è quest’aura,
insieme al blanchottiano tempo-senza-tempo, a tradurre l’esistenza
personale in una parola dialogica capace di approssimarsi all’universale.
(Maria Grazia Insinga)
Tradisci l’attesa che è
esilio senza terra, non da
nulla se il vuoto è qualcosa
coi suoi vocaboli e le preghiere,
epigrammi della propria
tentazione dove posano i
sensi umidi finché durano
poi si mostra l’orazione
della ragione che ha
incontrato il punto: l’assenza
di traccia. Slegati e disponi
della carne viva, il bene
e il male sono già qui
galleggiano sulla testa,
assomiglieremo alla nostra
alleanza puntando su
una sorpresa a distanza
che è tempo fuori-tempo,
ha il silenzio del fumo privo
d’immagine perfetta.
esilio senza terra, non da
nulla se il vuoto è qualcosa
coi suoi vocaboli e le preghiere,
epigrammi della propria
tentazione dove posano i
sensi umidi finché durano
poi si mostra l’orazione
della ragione che ha
incontrato il punto: l’assenza
di traccia. Slegati e disponi
della carne viva, il bene
e il male sono già qui
galleggiano sulla testa,
assomiglieremo alla nostra
alleanza puntando su
una sorpresa a distanza
che è tempo fuori-tempo,
ha il silenzio del fumo privo
d’immagine perfetta.
DUMITRU GALESANU
Medaglia d’onore per la poesia: “Urbi et orbi”
La
poesia di Dumitru Galesanu, poeta e magistrato rumeno, è portatrice di una densità
pensosa, intessuta di concetti filosofici, di tensione cosmica. Nell’indagare
il mistero della vita e della morte e la loro inscindibile connessione, egli
scrive:“…la lega dell’esistenza si
autoreplica in uno stato di energia: eterna e pura, dalla nascita siamo
destinati a soffrire”, riproponendo così le domande fondamentali dell’esistenza,
del significato e del ruolo del dolore, del mistero dell’eterno a cui inutilmente da millenni l’uomo cerca
risposta. (Renato Fiorito)
Partendo
in un’avventura epica,
nominata simbolicamente natura –
nel quale la lega dell’esistenza si
autoreplica
in uno stato di energia: eterna e
pura,
dalla nascita siamo destinati a
soffire;
la vita-e-la morte si gemellano
in un’unico minuscolo raggio,
e il ciclo della materia accesa all’infinito
si ripete,
tra le ombre caotiche prendendo la
forma concreta;
per delimitare lo scopo della
destinazione finale,
illimitati universi spazio-temporali
ovunque ci vanno incontro.
Tra le tenebre
caotiche
sottoposte alla sofferenza,
accettando la morte
come parte della vita e viceversa,
in uno stato puro di energia
guardai il verso pronunciato
nel magma dell’attimo
eternamente vivo;
tra infiniti
frammenti di luce divina,
come una nave relitto svelato
da un modo di pensiero diverso – lui
invertiva
la visione della città eterna dell’umanità.
In un modus vivendi
illimitato,
ogni universo trovato non sembrava
altro che un flessuoso e luminoso
cimitero,
dove ogni mortale si chiamava un
martire,
un minuscolo raggio oblazione della
mia vita era
nel ciclo della natura un Eden
ripetuto all’infinito.
La parola finale rivolta alla città e
all’umanità,
destinata allo scopo della vita e
alla (auto)redenzione,
prima che l’ultimo pensiero sparisca
nel reame celeste della malasorte –
non poteva evocare meglio
la storia senza-fine dell’amore,
senza la quale non sapremo
che cos’è la nostalgia per la luce.
GABRIELLA MONTANARI
Medaglia d’onore per la poesia: “A maggio”
Un
testo in cui l’essenzialità, la concentrazione, la sintesi ottenuta per
progressivi sfrondamenti del superfluo, conducono a un dettato che assume
rilievo e forza. Si ha l’impressione di trovarci di fronte a parti autonome che
si ricompongono nell’atto della rivelazione finale, quasi un’agnizione, il
momento in cui la voce ritrova se stessa tramite la presenza dell’altro, il suo
tocco determina l’impronta, la forma, l’essenza. Il testo che riflette sul
rapporto fenomenologico con l’alterità assume pregevole valore organico, anche
grazie alle capacità metaforiche. (Flaminia Cruciani)
A
maggio il grano ci punge.
Dallo
sterno pendono nastri di alluminio
che
scoraggiano il becco dei passanti.
La
maturità è cogliersi in tempo.
Dei
merli amo le ciligie forate.
Del
tuo tocco, la mia impronta.
SILVIA ROSA
Menzione d’onore per la poesia “Reliquia”
Un
dettato in apparenza lieve, quasi sospeso tra idillio e fiaba, con una dolcezza
intrinseca che è rara, quindi preziosa. Tale lievità tuttavia non è priva di
assonanze e capacità evocative anche inattese. Si arriva, in modo naturale e
coinvolgente, sul terreno dell’eros vissuto con intensa spontaneità. Ed è di
notevole suggestione il parallelismo tra il fiorire (o rifiorire) del corpo e
la rinascita della Natura. Il bosco bianchissimo che cresce a dispetto dell’inverno,
dentro le vertebre e in bocca, è un’originale variazione sul tema dell’amore,
condotto dall’autrice con sincera passionalità. In alcuni passi l’autrice
ricorda certi quadri giapponesi o alcune composizioni orientali, intrecciati
però a una carnalità mediterranea vissuta e trasmessa con estrema delicatezza. (Flaminia
Cruciani)
È così
che ricordo il tuo corpo
‒ sole
minuscolo ingoiato
da un
cielo di lucciole e assenze ‒
come
candido marmo, una perla
screziata
di buio per ogni silenzio
che
custodisci con le mani di neve
Pochi
giorni, le creste spampanate
dei
soffioni turchini che si agitano
in
questa distanza al rallentatore,
di
paura in paura, e tu sei una statua
bellissima,
terribile, senza occhi
né
voce, reliquia del mio desiderio
Voglio
tenerti ‒ un ossicino traslucido
una
ciocca di capelli velluto
una
goccia di sangue carminio
anche
un dentino per la fata che sono
quando
ti rubo il respiro ‒ contro il mio cuore
o
nella teca dell’ombelico, voglio che
l’odore
di muschio che ti sboccia umido
in
un’ombra del collo mi si arrampichi
addosso,
lungo la schiena
Quando
tornerai ad abbracciarmi
avrò
cresciuto un piccolo bosco
d’inverno,
bianchissimo,
dentro
le vertebre e in bocca
MELISSA STORCHI
Menzione speciale giovani
per la poesia “Perire... per un solo momento”
per la poesia “Perire... per un solo momento”
I versi di
questa giovanissima voce ci dicono di un continuo combattimento tra realtà e
illusioni, speranze e abbandoni. Sentimenti contrastanti affollano la scrittura
chiara, il nitore delle parole: più del desiderio di fuggire, colpisce la forza
di comunicare malessere e disagio. (Manuel Cohen)
Ho
sempre quel
sorriso
che di
notte
va
scomparendo
e mi toglie
la
voglia di vivere.
Sarebbe
bello
fare
“mia” la morte
abbandonare
tutto,
vivere
senza te
per un
solo istante
e...
Questi
sogni,
questi
maledetti sogni
che
soffocano
la
realtà...
Perire
per un giorno
privandomi
delle
mie illusioni,
bruciando
queste
pagine
di vita;
così
di me
rimarrebbe
soltanto cenere
e...
un
vago
ricordo.
GIULIANO RIETTI
1° Classificato con la videopoesia “Uomini e pezzi”
Originale
associazione di immagini tra le grate di un carcere e le caselle di una
scacchiera, tra la battaglia della vita e la partita a scacchi che i carcerati
giocano per ingannare il tempo e nella quale alla fine c’è sempre un re che
perde, quasi a dire che è l’eccessiva competizione a creare la sconfitta. Il
carcere è luogo di pena e di espiazione, ma vi finiscono spesso i più deboli,
quelli che non ce l’hanno fatta, non i più cattivi. Se non ci fosse questa
guerra permanente senza esclusione di colpi, sembra essere la tesi dell’artista,
le celle del carcere sarebbero vuote e le grate di tutte le carceri diventerebbero
inutili. (Renato Fiorito)
Visibile
al link: www.youtube.com/embed/gml3pnn4Ud0
GUIDO TRACANNA
2° Classificato con la video-poesia “Nameless place” -
(Videomaker : Francesco Paolucci)
È
un posto senza nome quello che si vede nel video di Guido Tracanna, o meglio è
il nome dimenticato di tutti quei posti dove c’è stata la guerra e si è insediata
la sconfitta; dove il lavoro non c’è più e dominano gli scheletri delle
fabbriche abbandonate, i muri nudi e grigi. Un posto come tanti, in cui alla
fine la gente si è arresa, è andata via e l’edera ha ripreso il suo posto. Sono
luoghi che entrano dentro come un’angoscia segreta e danno un senso di morte, di
consapevolezza che ogni cosa, ogni illusione è destinata a finire.
Contribuiscono all’atmosfera straniante le immagini e i suoni di Francesco
Paolucci e la bella voce di Raymond Crandon. (Renato Fiorito)
Visibile al link: www.youtube.com/watch?v=FDJGLfKpmsQ
FRANCESCO SASSETTO
3° Classificato con la
videopoesia “Poesie in veneziano”
Nell’atmosfera
incantata di una Venezia in bianco e nero, silenziosa e nebbiosa come nei
giorni di inverno, la voce del poeta legge sue poesie in veneziano e la sua
voce musicale sembra diventare una cosa sola con il paesaggio, lo sciabordio
dei canali, il profilo antico dei palazzi bagnati dall’acqua, a suggellare un
legame che, come egli stesso dice nei suoi versi, è simile a quello delle
cozze insensate, attaccate alla pietra
consunta dei canali e indifferenti alla mano che prima o poi le strapperà via. (Renato
Fiorito)
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