Pubblichiamo in questa pagina i testi delle opere vincitrici e le relative motivazioni. Chi vuole, troverà notizie più complete nell'Antologia Potessi raccontare i sogni acquistabile alle librerie Feltrinelli e su tutte le piattaforme on-line: LaFeltrinelli, IBS, Mondadori, ecc. (ad esempio, a prezzo scontato, su: https://www.ibs.it/potessi-raccontare-sogni-opere-vincitrici-libro-vari/e/9788892356931?inventoryId=143163366 ) .
Le foto sono di Amedeo Morrone
(http:// amedeo64morrone@gmail.com)
Premio Speciale alla Carriera
a
DANTE MAFFIA
Per avere dato lustro alla letteratura italiana con la sua intensa attività di poeta, scrittore e critico letterario contribuendo al rinnovamento culturale e sociale del meridione d’Italia
Siamo felici di assegnare il Premio alla carriera a Dante Maffia, grande intellettuale meridionale e illustre cittadino del mondo. Il suo contributo al dibattito culturale internazionale è testimoniato dalle innumerevoli partecipazioni a convegni letterari in ogni parte del mondo e dalla diffusione delle sue opere, tradotte in tutte le principali lingue.
Numerose sono le personalità di caratura internazionale che lo hanno conosciuto e commentato i suoi scritti: da Aldo Palazzeschi a Giacinto Spagnoletti, da Leonardo Sciascia, a Pier Paolo Pasolini, da Norberto Bobbio, a Dario Bellezza, e tanti altri.
Tra gli innumerevoli volumi di poesia citiamo “Io. Poema Totale della dissolvenza”’, opera monumentale di 700 pagine e circa 20.000 versi, che segna una tappa fondamentale non solo del percorso poetico di Dante Maffia ma della poesia italiana contemporanea. Di grande profondità e commovente amore per la vita sono anche i suoi ultimi poemi: “Il poeta e la farfalla” e “Matera e una donna”.
Rilevante è l’umanità con cui Maffia ha saputo affrontare i temi più scottanti del nostro tempo, primo fra tutti quello dell’emigrazione, degli emarginati, dei manicomi, dei barboni, riuscendo a percepire le lacerazioni e le necessità dei più poveri con intensa carica umana, ansia di giustizia e sguardo sgombro da ogni pregiudizio.
Ricordiamo infine i premi di alto prestigio che Dante Maffia ha ricevuto nella sua carriera, tra i quali il Premio Giacomo Matteotti datogli dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Premio Viareggio, il Premio Camaiore e la Medaglia d’oro alla cultura conferitagli dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel 2004.
(da “Io Poema totale della dissolvenza” – Psicanalisi - Edilet pag. 22)
Non trasferirti così spesso
Nella casa che hai costruito con le paroleE con il sole di maggio
E con il profumo dei gelsomini.
Abbi fede nel fango, qualche volta,
nella poesia degli acquitrini
e nella carità dei lunatici
che fanno acquisti alle bugie delle nuvole.
Vedrai che le lumache ti seguiranno
E avrai una scia di regnanti al tuo seguito
E che la banda farà fiorire
Le note del Barbiere di Siviglia
Fino alla cima della collina.
Premio Speciale alla Carriera
a
a
FABIO MARIA SERPILLI
per la sua attività di poeta e promotore della poesia in italiano e nelle lingue minori
Uomo e artista di rara generosità, Fabio Maria Serpilli (1949), da decenni si adopra a diffondere la poesia. Infaticabile operatore culturale, cura laboratori di poesia nelle scuole, dopo aver a lungo insegnato all’Accademia di Belle Arti di Urbino, e presiede l’associazione Versante, da decenni impegnata nell’opera di valorizzazione delle lettere e delle arti nel territorio marchigiano, producendo una serie di volumi atti a diffondere e a mappare in maniera capillare la realtà della poesia.
A lui si devono l’ideazione di numerosi premi letterari, tra i quali, spicca per diffusione nazionale e per notorietà, il “Premio Poesia Onesta”, che ha luogo a Falconara e che coinvolge scrittori in versi di ogni latitudine e di ogni età.
Serpilli è, oltre ogni cosa, poeta. Erede dell’anconetano Franco Scataglini, ha pubblicato svariati volumi di versi in lingua e maggiormente in dialetto: un dialetto anfibio, per molti aspetti prossimo all’italiano: è il dialetto di confine, quello centro-italico, posto a cuscinetto tra le lingue gallo-italiche del nord del paese e quelle di chiara matrice meridionale. La sua parlata è quella della vallata del fiume Esino, che ha forti richiami con l’italiano delle origini, o volgare, o jacoponico, le cui sonorità, e la cui musica, si impongono per levità e per grande forza di visione. La sua poesia, come tutto il suo impegno profuso in lunghi decenni, è quasi per intero dedicata alla sua terra: il suo orizzonte di riferimento è rappresentato dalla natura marchigiana, dal paesaggio, dai luoghi della memoria materna (Ancona, Falconara, Montelibretti), dagli affetti e dalle persone che animano, come in una scena bruegheliana, i suoi versi. versi chiari, luminosi, ariosi: propri di chi ha sedimentati nella propria cultura, nel proprio DNA, Raffaello e il Rinascimento, il sentire antico, anche religioso, e la dolcezza acuminata dello sguardo leopardiano. A lui, con molto merito, viene conferito il premio Di Liegro alla carriera 2019. (Manuel Cohen)
Serpilli è, oltre ogni cosa, poeta. Erede dell’anconetano Franco Scataglini, ha pubblicato svariati volumi di versi in lingua e maggiormente in dialetto: un dialetto anfibio, per molti aspetti prossimo all’italiano: è il dialetto di confine, quello centro-italico, posto a cuscinetto tra le lingue gallo-italiche del nord del paese e quelle di chiara matrice meridionale. La sua parlata è quella della vallata del fiume Esino, che ha forti richiami con l’italiano delle origini, o volgare, o jacoponico, le cui sonorità, e la cui musica, si impongono per levità e per grande forza di visione. La sua poesia, come tutto il suo impegno profuso in lunghi decenni, è quasi per intero dedicata alla sua terra: il suo orizzonte di riferimento è rappresentato dalla natura marchigiana, dal paesaggio, dai luoghi della memoria materna (Ancona, Falconara, Montelibretti), dagli affetti e dalle persone che animano, come in una scena bruegheliana, i suoi versi. versi chiari, luminosi, ariosi: propri di chi ha sedimentati nella propria cultura, nel proprio DNA, Raffaello e il Rinascimento, il sentire antico, anche religioso, e la dolcezza acuminata dello sguardo leopardiano. A lui, con molto merito, viene conferito il premio Di Liegro alla carriera 2019. (Manuel Cohen)
Tributo alla memoria
a
Il Premio Di Liegro 2019, a pochi mesi dalla ristampa del primo libro di versi, Una pesca animosa (E.I.M, Roma 1966; Nuova ediz. Cofine, Roma 2018) assegna un tributo alla memoria di Achille Serrao (1936-2012), operatore culturale, critico, narratore e poeta in lingua e in dialetto tra i migliori tra Secondo Novecento e Duemila, figura di rilievo sulla scena letteraria della Capitale, quando esisteva una società letteraria, con le regole, i riti, dibattiti e idee. Poeta eminentemente lirico, si era nutrito di ermetismo e di neorealismo, da Luzi a Gatto, da Pavese a Scotellaro, fino alla svolta decisiva, scatenata dalla morte del padre, di aprirsi alla lingua delle origini, quella campana, di Caivano, dove era nato, e che lo porterà a pubblicare nel 1990, Mal’aria. I libri in dialetto, A’ canniatura (1993); O supperchio (1993); Cecatèlla (1995), Semmènta vèrde (1996), Giro di casa (2001) e Disperse (2008). Cecatèlla (1995), Semmènta vèrde (1996), Disperse (2008), che gli valsero i più prestigiosi riconoscimenti, tra cui il Premio Pascoli, e l’inserimento nelle più importanti antologie di poesia italiana (Mondadori, Einaudi, Garzanti), lo consegnano definitivamente tra gli autori più apprezzati, e lo inseriscono nel solco della grande tradizione partenopea, melanconica e ironica, di Di Giacomo e di De Filippo. Nella sua scrittura convivono sentimenti e figure del passato e del presente, immagini e simboli della grande poesia di tutti i tempi, istanze di raccordo, di accordo e di preghiera, laica, dimessa, sommessamente lirica. Poeta di aria e di musica, di natura e di profondità di visione, Serrao lascia una scia lunimosa di parole, una cometa che risulta, a tratti, anche vertiginosa, per profondità di sguardo e per ricerca stilistica. (Manuel Cohen)
’O puntone
A nu puntone chiove stracqua, ’o sole
pe’ scagno: e vide qua’ muricena
stu puntone smuzzecato, comme ’a vita
se scònceca lloco… e chiove schiove quanno ’e mmane
chiù sgrimme astrégneno na mappata ’e voce
muntunciélle ’e parole pe’ dimane …
stu puntone smuzzecato, comme ’a vita
se scònceca lloco… e chiove schiove quanno ’e mmane
chiù sgrimme astrégneno na mappata ’e voce
muntunciélle ’e parole pe’ dimane …
Nu vutà ’e pressa senza maje sapé
si chiare o ammagagnate só’ ’e pparole
’e voce ’o riesto … na vutata …
si chiare o ammagagnate só’ ’e pparole
’e voce ’o riesto … na vutata …
Ma nun te n’addunà, trase â via ’e dinto.
Il cantone.
A un angolo di strada piove, spiove, il sole
a caso: e guarda che maceria
quest’angolo sbreccato, come la vita
si scombina qui … e piove spiove quando le mani
più aggrinzite si avvinghiano a un sacchetto di voci
monticelli di parole per domani…
Un rapido scantonare senza mai sapere
se trasparenti o false sono le parole
le voci il resto … una voltata …
Ma fa finta di niente, entra.
a caso: e guarda che maceria
quest’angolo sbreccato, come la vita
si scombina qui … e piove spiove quando le mani
più aggrinzite si avvinghiano a un sacchetto di voci
monticelli di parole per domani…
Un rapido scantonare senza mai sapere
se trasparenti o false sono le parole
le voci il resto … una voltata …
Ma fa finta di niente, entra.
Premio speciale fuori concorso
a
Per il libro “La linea del cielo” (Garzanti)
In “La linea del cielo” Franco Buffoni descrive, a volte con distaccata ironia, talaltra con malinconia, un percorso geografico-temporale-letterario che, partendo dai ricordi delle valli lombarde della giovinezza, arriva fino alla Roma dell’età adulta, con le sue storie, la sua cultura, la cronaca a volte aspra del quotidiano. Nel fare questo l’autore non si perde tra le innumerevoli strade che il lungo percorso suggerirebbe, ma mantiene la linea diritta che il titolo suggerisce, quella linea del cielo tracciata dai grandi della letteratura del ‘900 italiano che, come Sereni, Montale, Pasolini, Zanzotto, hanno avuto un ruolo nella sua formazione e a cui Franco Buffoni rende qui un tributo. (Renato Fiorito)
Vittorio Sereni ballava benissimo
Vittorio Sereni ballava benissimo
Con sua moglie e non solo.
Era una questione di nodo alla cravatta
E di piega data al pantalone,
Perché quella era l’educazione
Dell’ufficiale di fanteria,
Autorevole e all’occorrenza duro
In famiglia e sul lavoro,
Coi sottoposti da proteggere
E l’obbedienza da ricevere
Assoluta: «È un ordine!»,
Riconoscendo i pari con cui stabilire
Rapporti di alleanza o assidua
Belligeranza.
Ordinando per collane la propria libreria.
Con sua moglie e non solo.
Era una questione di nodo alla cravatta
E di piega data al pantalone,
Perché quella era l’educazione
Dell’ufficiale di fanteria,
Autorevole e all’occorrenza duro
In famiglia e sul lavoro,
Coi sottoposti da proteggere
E l’obbedienza da ricevere
Assoluta: «È un ordine!»,
Riconoscendo i pari con cui stabilire
Rapporti di alleanza o assidua
Belligeranza.
Ordinando per collane la propria libreria.
(da "La linea del cielo")
ALFREDO PANETTA
1° Classificato con il libro “Thra sipali e sònnura” (Puntoacapo)
«Bisogna uscire da sé / per vedere la vita com’è», dice il verso di una poesia di Alfredo Panetta, contenuto nella raccolta, Thra sipali e sonnura, ‘Tra rovi e sogni’, che la Giuria del Premio Di Liegro 2019 ha deciso di premiare, e tanto basterebbe – come nel cartiglio di un’impresa – a significare la forza intensa e generosa di una poesia che non si accontenta di se stessa ma cerca nel traguardo della vita, e oltre la vita stessa, un orizzonte di senso che purtroppo sfugge fra le pressanti occupazioni quotidiane.
Ma i versi di Panetta si distinguono anche per la loro passione linguistica nei confronti di un dialetto che sa riscattare ogni residuo nostalgico in una limpida e lucida, e a tratti però anche surrealistica, visionaria («Oggi l’aria che respiro profuma di catene», recita drammaticamente l’incipit di un’altra poesia) forza espressiva. Così, gesti, parole, luoghi, figure, incontri, situazioni della memoria si aggrovigliano e si dipanano – sembra essere il messaggio di Panetta – come in un tormentato dialogo con la memoria del Sé, nella cui coscienza si inscrive il destino personale di ciascuno di noi (Salvatore Ritrovato)
‘I brasi ‘nt’e mani
Mi scortica ‘n ddu ‘u tempu
cu ‘nu rèfulu ‘i mola affilatu.
C’u sangu chi resta
stanotti nci dugnu mangiari è cani chi llatranu ‘i sònna.
Abbaju a’ cerza arretu a’ casa
abbaju è sthrati chi non m’amanu cchjiù non mi scuordu nenti, eu aggiuru
sugnu vecchjiu ‘nto cori e m’avantu.
Tuttu chiju chi vitti
esti inta a hjiamma du foculari aundi mè pappui pigghjiava ‘i brasi
ch’i mani, senza u s’abbruscia.
Le braci tra le mani
Mi scorteccia in due il tempo / con una brezza affilata. / Col sangue che resta / nutro i cani che stanotte / sporcheranno i miei sogni. // Abbaio alla quercia dietro casa / abbaio alle strade che non mi amano più / non dimentico nulla, lo giuro / sono vecchio nel cuore e mi vanto. // Tutto ciò che ho veduto / è nella fiamma di un focolare / dove mio nonno prendeva le braci / con le mani, senza scottarsi.
2° Classificata con il libro “Tempo di riserva” (Giuliano Ladolfi Editore)
Una raccolta matura nello stile e nel contenuto che rivela una scrittura poetica originale e interessante. Metafore e immagini sorprendono, ogni verso è lavoro accurato, che invita alla riflessione. Partendo dall’inverno l’autrice muove il suo sentire in un tempo di “riserva” tra nostalgie e ricordi, in una quotidianità che è esperienza del corpo e dell’anima: “esistere/ è camminare sul bordo sbeccato/ dell’orizzonte”. È un procedere tra le stagioni in forma di rinascita interiore, con la poesia che sempre rinnova. (Michela Zanarella)
Tempo di riserva
Qui è dove il tempo
ci ha costretti
a un sogno in miniatura
ad abbandonare la dorsale
incerta del domani
a procedere occhi a terra
respiro breve – soli –
Dicevi del coraggio,
è vero, ma anche l’odio,
sai, è un pungolo
la spinta propulsiva
a non demordere
– finché c’è odio c’è speranza –
a non dimenticare,
basta sostituire la parola amore
logora e blasfema
a questo doppio girotondo
di vocali, un cerchio, un cappio
ripetuto fino all’io
ci ha costretti
a un sogno in miniatura
ad abbandonare la dorsale
incerta del domani
a procedere occhi a terra
respiro breve – soli –
Dicevi del coraggio,
è vero, ma anche l’odio,
sai, è un pungolo
la spinta propulsiva
a non demordere
– finché c’è odio c’è speranza –
a non dimenticare,
basta sostituire la parola amore
logora e blasfema
a questo doppio girotondo
di vocali, un cerchio, un cappio
ripetuto fino all’io
ed è da questo tempo di riserva,
e con la stessa intensità di prima,
che adesso esercito la cura:
odiarti, deluderti con gioia (la mia),
lasciarti prigioniero del presente
identico a te stesso, immobile,
negarti infine e ancora al mio futuro.
ELISABETTA SANCINO
3° Classificata ex aequo con il libro “Il pomeriggio della tigre” (Terra d’ulivi)
Immagini spiazzanti, di una forza inusuale, in cui il mito e la natura si manifestano. Un immaginario inconsueto, al riparo dalla retorica, espresso da una voce vibrante con una musicalità sensuale e concentrica che cattura il lettore in un nido, che è lo scenario incorrotto e sublime della cerimonia della natura, dei suoi ritmi primitivi. Si osserva una natura binaria, cosmica e corporale, che rispecchiandosi si dirama e converge a interrogare l’ebbrezza dell’esistenza. Una poesia radicale e intimamente profetica, enunciata da un punto di osservazione nudo, senza forzature, che affronta l’indeterminato come una confessione coraggiosa e aurorale. Una parola poetica piena e appassionata che si fa carne, terra e vento, nascita e morte, luce e oscurità, che diventa necessità. (Flaminia Cruciani)
Il pomeriggio della tigre
Sia resa gloria a quei pomeriggi
in cui la tigre ti salta in grembo nel perimetro sacro del letto
e lì si posa, come una sfinge bizzarra
che sa e non dirà ancora
cosa nel suo cuore brucia.
Fuori dalla savana
dallo zoo e dalla gabbia
in questo spazio non-spazio
abitato dalla penombra
posso finalmente fiutarla
estrarre l’oro del suo sguardo
cavalcare il suo dorso elastico
corpo a corpo
in un incastro perfetto
finché alfabeti schizzano sulle lenzuola
balzati fuori da una lesione primordiale.
È per questa lingua irrimediabile
che ogni mia umanissima cellula
venera l’animale.
3° Classificata ex aequo con il libro “Dolore minimo” (Interlinea)
“Dolore minimo”, a differenza di quanto potrebbe ritenersi, è un libro che riguarda tutti: esso ci mostra senza infingimenti il quotidiano dolore di vivere, l’aspirazione a ricomporre l’unità spezzata, il desiderio di accettarsi e essere accettati nonostante le ferite, le debolezze, l’inadeguatezza di cui siamo consapevoli. Tuttavia questo cercarsi e non trovarsi ha in Giovanna Cristina Vivinetto un surplus di dramma, l’ineluttabilità di una metamorfosi, la consapevolezza di una migrazione che le farà attraversare una terra sconosciuta, deserta di affetti, in cui sarà necessario morire per poi rinascere. Il prezzo da pagare per questo mutamento è altissimo: restare sola, misconosciuta, ripudiata dalle persone amate, fino al punto da dimenticare l’immutata essenza: “il legno ferito dagli squarci/ era un piccolo seme bianco/ scagliato con violenza nel nulla” (Renato Fiorito)
Le vie del paese
erano sezioni compatte di buio
che si incrociavano a scacchiera.
La memoria del passo
si tramandava uguale ad ogni incrocio.
Nelle sere d’estate
madonne portate in spalla marciavano di casa in casa
e con indolenza assolvevano
peccati simili tra loro.
Erano strade piene di fede,
occhielli di ottone e discrete finestre socchiuse.
Nella quiete di quelle strade
la malattia giunse d’agosto. Travolse le madonne e gli occhielli,
ruppe gli incroci,
non diede il tempo
per chiudere le finestre.
Mi inchiodò sprovvista di fede
su una croce qualsiasi della grande scacchiera.
Mi scoprì inadatta alla simmetria
delle proporzioni – alla retta
sempre fedele a se stessa.
Imparai così dall’imperfezione
degli alberi nel farmi ramo sottile e spigoloso per tendere
obliquamente alla verità della luce.
FRANCESCO INDRIGO
Medaglia d’onore per il libro “Nessun di nun” (Samuele Editore)
Nissun di nun/ Nessuno di noi di Francesco Indrigo è un viaggio che si estende in ampiezza e profondità tra radici e letture, luoghi naturali e luoghi letterari, tra scene, colte con la delicatezza del sentire e il rigore del dire, di drammi individuali e di tragedie corali, tra discorsi di alberi e discorsi agli alberi, in una lingua che risponde con asprezze e duttilità – argute le une e le altre – alle esigenze espressive mai monocordi, in una lingua, come sottolinea l’autore nel componimento che apre la raccolta, che dà voce alla “pazienza della poesia”. (Anna Maria Curci)
Coma no vê dôl cuant ch’a ven
scjassàda, strassinada ta li’ plazis,
preàda, lustràda e laudàda
dai ciantors da li’ rimis.
opùr tignùda in cont, travuardada
da ociàdis ordenaris in aulis
rimessadis. E po sglinghinaments
di bussùtis e incens sparnisàt.
Passàda tal tamès da capelans
studiàts o vint savoltant segnàt
cul det, a spissigâ li’ cuardis
da la calcolada dismintiansa.
La pasiensa da la puisìa a no conòs
viars. Epùr ‘i l’ài vidùda ta l’ultima
scjassàda, strassinada ta li’ plazis,
preàda, lustràda e laudàda
dai ciantors da li’ rimis.
opùr tignùda in cont, travuardada
da ociàdis ordenaris in aulis
rimessadis. E po sglinghinaments
di bussùtis e incens sparnisàt.
Passàda tal tamès da capelans
studiàts o vint savoltant segnàt
cul det, a spissigâ li’ cuardis
da la calcolada dismintiansa.
La pasiensa da la puisìa a no conòs
viars. Epùr ‘i l’ài vidùda ta l’ultima
La pazienza della poesia
Come non provare compassione quando viene / strattonata, trascinata nelle piazze, / invocata, incensata e lodata / dai cantori delle rime. / oppure preservata, protetta / da sguardi volgari in aule / damascate. e poi tintinnii / di ampolle e spargimento d’incenso. / Passata al setaccio da chierici / eruditi o additato vento perturbante / a pizzicare le corde / del calcolato oblio. / La pazienza della poesia non conosce / verso. eppure l’ho vista nell’ultima / fila, le gambe accavallate, le lunghe dita / a riposare sul grembo e sorridere con appena / un lieve sobbalzo del sopracciglio.
Medaglia d’onore per il libro “Gigli a colazione” (Puntoacapo)
“Sembra che nel libro di Gianfranco Isetta “Gigli a colazione” gli elementi della natura si diano convegno a una sorta di simposio del bello, in un’apparentemente semplice armonia di suoni e colori: delle foglie, delle nuvole, del cielo, laddove il bianco è dominante, che si tratti di neve, di luna, di gesso o di gigli. E l’avvicendarsi delle stagioni scandisce il passo del tempo che con grazia e leggerezza sospinge la parola poetica sul confine tra amore e morte. Poesia pensata e vissuta nel senso che pensiero ed emozione si inseguono e si permeano nei versi dell’autore: “Giova pensare agli occhi testimoni / come rami bianchi protesi / a scrutare ogni transito di nuvola.” Ogni singola parola appartiene così a un mosaico complesso, alla sinfonia perfetta di una lucida metafora del divenire come possibilità. (Monica Martinelli)
Invecchiano le nuvole
Invecchiano le nuvole
sul parabrezza che guarda il cielo e l’abitudine nasconde l’ansia
in arrivo col temporale.
Si aggiunge un filo sottile di luce
che irride alla pioggia, risale un pensiero d’azzurro
più in alto del giorno (*)
risale.
Un lucido pensarsi
in quel ramo ricurvo
che lasciando le foglie
ne trattiene il respiro
forse chiedendo al vento
di collaborare.
A volte alcune
le raccolgo ed altre anch’io le lascio andare
e con il gesto della mano
seguo il loro percorso
come fossi un ramo.
Medaglia d’onore per il libro “Le murmure du silence” (E.U.R.)
Sylvain Josserand è poeta francese dell’alta Loira, nei cui versi si avverte la presenza misteriosa di Dio, il conflitto che si sviluppa tra la tensione alla luce e le radici che affondano nel buio della terra. È in questo conflitto che trova ragione la sua poesia. Una poesia che non cerca l’armonia, ché non è l’armonia che prevale nella vita, ma piuttosto di sciogliere il filo ingarbugliato della verità. ”Vorresti tanto che il sacro si rivelasse in te al di là delle credenze, dei dogmi e dei castighi”. Dunque desiderio disperato e destinato quindi a rimanere inappagato. Il verso è per questo anomalo, spesso lungo, a volte molto vicino alla prosa, ma tuttavia l’ansia di verità lo regge e diventa essa stessa lirica, desiderio di volo, ossessione, frustrazione esperienziale. La traduzione di Mario Selvaggio rende bene le intenzioni del poeta e ci regala un libro certo al di fuori dei canoni usuali. (Renato Fiorito)
Ne plus penser
Laisser l‟immensité t‟envahir Écouter le silence après la vague
Un peu d‟écume abandonnée sur un lit de coques de moules ou de couteaux
Ne plus t‟évader, laisser le vent te parler des mystères du Grand horloger
Une branche oubliée par la marée, témoin d‟une lointaine contrée où tu n‟iras jamais Ne plus penser, garder l‟esprit éveillé
À la frontière des mondes, là où tu rencontres le grand mystère, ton esprit s‟apaise
Tu vis en pleine conscience un instant privilégié entre le Ciel et la Terre
Le bruit de la mer est comme un ruisseau de montagne
Une pause de silence dans le bouillonnement de ton cerveau en perpétuelle activité
Quand tu fermes les yeux sur la dune de Cabourg et que tu les ouvres tout soudain,
un monde émerge du Rien Un alphabet se dessine dans le ciel et sur la ligne d‟horizon
On a fermé la porte qui protège les herbes cornées par le sel et la sente qui donne sur la mer
Tu pénètres dans un jardinet alors que le vent du large s‟apaise
Tu profites pleinement de cette virgule de bonheur alors que des piafs piaillent et vocalisent
Trois cigognes se laissent porter sur l‟air chaud qui les conduit vers le Sud
Ne plus penser
Ne plus laisser le singe fou prendre ton cerveau en otage
Tu écoutes la rumeur de la cité balnéaire et les vagues qui déferlent sur la plage
Un point d‟exclamation de douceur
Cammino
Non pensare più
Lascia che l’immensità ti invada
Ascolta il silenzio dopo l’onda
Un po’ di spuma abbandonata su un letto di gusci di cozze o di coltelli
Non evadere più, lascia che il vento ti parli dei misteri del Grande orologiaio
Un ramo dimenticato dalla marea, testimone di una lontana contrada in cui tu non andrai mai
Non pensare più, serba lo spirito sveglio
Alla frontiera dei mondi, là dove incontri il grande mistero, il tuo spirito si placa
Tu vivi in piena coscienza un istante privilegiato tra il Cielo e la Terra
Il rumore del mare è come un ruscello di montagna
Una pausa di silenzio nel ribollio del tuo cervello in perenne attività
Quando chiudi gli occhi sulla duna di Cabourg e li apri all‟improvviso,
un mondo emerge dal Nulla Un alfabeto si disegna nel cielo e sulla linea dell’orizzonte
Si è chiusa la porta che protegge le erbe brevicorni dal sale e dal sentiero che dà sul mare
Entri in un giardinetto mentre il vento del largo si placa
Approfitti pienamente di questa virgola di benessere mentre dei passerotti pigolano e vocalizzano
Tre cigogne si lasciano trasportare dall‟aria calda che le conduce verso il Sud
Non pensare più
Non lasciare più che la scimmia furiosa prenda in ostaggio il tuo cervello
Tu ascolti il rumore della città balneare e le onde che s‟infrangono sulla spiaggia
Un punto esclamativo di dolcezza
GIULIO MAFFII
Medaglia d’onore per il libro “Angina d’amour” (Arcipelago Itaca)
Una lunga puntuale, impressionante ricognizione sulla normalità della vita e della realtà, in grado di cogliere per paradosso di senso, e nonostante il ricorso a una scrittura assertiva e solo apparentemente ovvia, tutta la contraddizione, tutta la “stortura” o la crepa nelle cose, nei corpi, nel sentire ancora umano. Un libro che si impone per il ricorso a una lingua che è sì comunicativa e che tuttavia sa spesso evertire dalla norma, sa sorprendere per soluzioni proprie della più consapevole scrittura di ricerca, una scrittura che affida pause e ritmo al respiro stesso dei versi e del pensiero, talvolta a una riflessività caustica e autoironica, rinunciando con tratto elegante e gusto contemporaneo all’interpunzione. (Manuel Cohen)
Non ho mai sentito un vuoto
perché un padre non l’ho mai avuto
niente da riempire o maledire
Il gelo fa più male dell’assenza
e si apprende la consuetudine
di essere imperfetti
e siamo in molti
nessuno è da solo
nelle forme del dolore
Parole molto simili dondolano
tra l’abisso e la nuca
spalancano e spaccano le vertebre
Viviamo di così poco
che anche un fiammifero
ci divora
Medaglia d’onore per il libro “Timbe-condra-Timbe” (Puntoacapo)
Una lunga, interessante, problematica riflessione sul tempo, ma anche sul controtempo musicale e proprio della poesia, quindi sulla vita e sul suo contrario, sul dolore e sulla speranza, costituisce la trama o fil rouge di uno dei libri di poesia più riusciti di questi anni. L’autore, all’apice della maturità artistica, lavora per antifrasi, sa coniugare competenza a saggezza popolare in versi di rara efficacia, in clausole fulminanti, in immagini notevoli che fissano pensieri e interrogano il lettore. (Manuel Cohen)
U ‘nguelèisce
Quanne pirde tanda cumbàgne
parìnde, amèisce, frote, figghje, serìure
sinde ca la Mùorte, te stè attùrne.
Invèce de chiange,
cu’ la facce de fatue ca tìénghe rèire, le rire ‘mbacce.
Ièdde, nan sope
ca nan stè cchjù guste a fo merèje la ggìénde cume re mùosque.
Nan è capèite
ca cchjù ‘ngalcaràisce, cchjù pèrde u piacère.
Sinde a maiche,
arrecùrdete de niue ogn’è tande, nan si stànne a penzò sèmbe a nu fatte.
Sinde a maiche,
livete sti ‘nguelèisce alla scurdòte assaliute ad-acchessèje, pute godèe cume criste cumànne.
Lo sfizio
Quando perdi, tanti compagni
parenti, amici, fratelli, figli, sorelle senti che la Morte, ti gira intorno.
Invece di piangere,
con fa faccia da scemo che mi ritrovo, rido, le rido in faccia.
Lei, non sa
che non c’è più gusto
a far morire la gente come le mosche.
Non ha capito
che più incalza, più perde il piacere.
Ascoltami,
ricordati di noi ogni tanto, non stare a pensare sempre a un fatto.
Ascoltami,
togliti ‘sti sfizi raramente solo cosi, potrai godere come cristo comanda.
ROSA RIGGIO
Medaglia d’onore per il libro “Il peso della neve” (La vita felice)
Libro pregevole per la solidità della struttura, lo stile maturo e l’interesse dell’argomento trattato. Il tema-cardine della perdita è affrontato con profondità e compostezza grazie a una lingua sfrondata ed essenziale che, se da un lato testimonia una poesia di pensiero, dall’altro si rivela fortemente suggestiva per l’impiego di immagini mai scontate. Alla densità si accompagna la leggerezza, a cui contribuiscono non solo l’assenza di retorica, ma anche il ritmo e la musicalità del verso. In questo libro, la scrittura si accosta dunque al mistero della morte con delicatezza, senza alcuna enfasi, procedendo in maniera quasi ondivaga, cosciente proprio della forza del non detto. (Raffaela Fazio)
Com’è delicata la morte, quasi non c’è.
I ricordi? Infedeli.
Un colpo di reni e il passato
retrocede nel tempo.
Quanto impreciso divenire I ricordi? Infedeli.
Un colpo di reni e il passato
retrocede nel tempo.
e provvisoria imperfezione.
Le cose che restano inerti, chi le conserverà.
Non chiedono, stanno, immobili. Le abbiamo raccolte, alcune regalate.
Un trapianto, su corpi sconosciuti.
Le seguo perdersi, come il tuo volto
mentre accelerava il suo sparire.
Ritorni in bianco e nero e non ti riconosco.
Sei complice del mio sparire.
Medaglia d’onore per il libro “L’adatto vocabolario d’ogni specie” (A.C. Pietre vive)
In “L’adatto vocabolario di ogni specie” Alessandro Silva affronta l’impresa ardua di dire in poesia la polvere sottile della morte per lavoro, lo scempio e i tentativi di arginarlo, le nubi e i canali sotterranei di veleno a Taranto. Nella brutalità del male perpetrato, è la dolcezza della “forza primitiva”, il vigore di una “lieve carezza” che resta e resiste nel tempo, a far sì che accada, anche nei “giorni sommersi”, “lo stesso infantile stupore”, a legare indissolubilmente e con un dettato nitido umanità e poesia. (Anna Maria Curci)
Luce dentro la terra
Non si vedono case ma una colonna
alzata per trentacinque metri di cielo, quel tanto che basta a oscurare
il sole. Una torre medioevale
di argento e pietra, per i più ilari
bicchiere rovesciato sul sostegno
di una tazza, un tino posato sopra
una sacca. C’è un silenzio di bocca
sulla cima che s’apre a una gola
di lamiere. Maleodora. Sa di
sfacelo e bestemmie a tenere
la bocca di un uomo scucita per aria.
Da impuri bagliori ci si lascia
bruciare, svogliati [urto di luce
conficcato in un recesso di Terra].
La barba
va tenuta accorciata per non farne
polvere di nero, d’odore nel piattosudore d’ombra.
PREMI SPECIALI
Premio speciale della Giuria per la poesia “Potessi raccontare i sogni”
Vito Moretti, indimenticabile, gioviale e civile docente di italianistica, infaticabile promotore della poesia, studioso di D’Annunzio, era narratore e poeta in lingua e in dialetto. Del dialetto abruzzese poi, o teatino, è stato uno degli ultimi e prestigiosi cantori. Potessi raccontare i sogni, testo di consapevolezze e di rimpianti, presago quasi, del futuro o della fine imminente. Poesia dei desiderata o delle aspirazioni più umane: il desiderio di fermare l’istante, di cogliere una sfumatura, «una sensazione, un “mondo che passa così” velocemente. La vita che ci sfugge tra le mani, che si allontana all’orizzonte, in dissolvenza, come un treno in corsa; la vita che scende, o tramonta, che entra nella terra, o ad essa ritorna, in profondità “segreta e compiuta”. Poesia che assomiglia a un testamento; versi che coniugano orizzontalità del presente, delle cose, della vita feriale e verticalità, vertigine quasi, della visione. Uno dei suoi libri più belli si apre con una citazione da Pierre Teilhard de Chardin: “Immergersi per emergere e sollevare”. L’arte e la vita di Moretti si sono attenute a questo mandato etico. (Manuel Cohen)
POTESSI RACCONTARE I SOGNI
Potessi raccontare i sogni
e ricordarli prima che freddi
il caffè, al mattino, e tenerli buoni
mentre tolgo dal cassetto
una camicia di bucato
e metto le scarpe e incrocio le dita
e penso che basti sempre meno
se si sorride e via,
perché il mondo passa così,
mentre annodi fazzoletti
e sali a volo sul tram
e ci perdi chissà cosa,
un bacio forse, un’idea
che non aiuta più di tanto, un verso
che neanche poi lo immagini
sul tuo taccuino, fra lo scatto
di un selfie e lo sbadiglio
del cane. Ma so che ad ogni angolo
si incrocia una fetta del giorno, la vita
che scende per me compiuta e segreta
come una radice di pioppo,
come il rimedio che salvi.
e ricordarli prima che freddi
il caffè, al mattino, e tenerli buoni
mentre tolgo dal cassetto
una camicia di bucato
e metto le scarpe e incrocio le dita
e penso che basti sempre meno
se si sorride e via,
perché il mondo passa così,
mentre annodi fazzoletti
e sali a volo sul tram
e ci perdi chissà cosa,
un bacio forse, un’idea
che non aiuta più di tanto, un verso
che neanche poi lo immagini
sul tuo taccuino, fra lo scatto
di un selfie e lo sbadiglio
del cane. Ma so che ad ogni angolo
si incrocia una fetta del giorno, la vita
che scende per me compiuta e segreta
come una radice di pioppo,
come il rimedio che salvi.
Premio speciale Fondazione Di Liegro per la poesia “Don Giggi”
Alberto Ciarafoni ricorda in questa poesia, con parole di sincera commozione, la grande, fraterna generosità di Don Luigi di Liegro, la sua vicinanza verso i più poveri e la lotta tenace che egli condusse contro le ingiustizie, e l’emarginazione, fino al punto di dimenticare se stesso e la sua umana fragilità. (Renato Fiorito)
Don Giggi
I
Cinque balordi uccisero ‘n barbone
(oppuramente mejo: ‘o trucidorno!) ‘n que l’ottobbre e guasi ner giorno,
ch’er battajero contro l’escrusione …
… e pe’ l’immediatezza de l’azione,
Don Giggi, causa ‘r còre, fe’ ritorno
ne la Casa der Padre! ‘O sprangorno…
… e doppo poi ne fecero ‘n tizzone!
Me domannai, a cronica … sentita,
come sarebbe insorto ‘n quer frangente
quer … Prete … difensore de l’umano,
ch’a marginali consacrò … ‘a vita:
a’ tossici, a’ migranti, a … tanta gente …
(se le sporcò davero que le mano!)
II
… malata d’Aids, i … senzatetto,
fino a sfidasse contro Chiesa e Stato! Lui de Gaeta, mite … appassionato,
co’ carità e giustizia drent’ar petto:
- L’òmo va libberato! - E presto detto:
da malatie, bisogni… (ho raggionato!) l’amore pe’ se stessi … esaggerato,
farzi miti … profeti pe’ … diletto,
da l’edonismo sempre più ‘mperante!
- Giacché ‘gni òmo è … come ‘na via, ch’in quarche modo ce conduce a Dio! -
Tenace, come pochi … ‘ssai costante,
co’ “beati” der Vangelo… ‘n armonia, pe’ ‘a … solidarietà, ‘n quer… fottio
III
de… ‘ndiferenza e … disinformazioni,
senza cercà ‘r perché de l’indigenza (ar fine de l’ajuto e … l’accojenza!)
fe’ realizzà… strutture, associazioni…
Doppo ‘r silenzio e … le meditazioni,
sgrullò de brutto più de ‘na coscienza facennoje accorcià ‘a … difidenza!
(co’ la più lenta de … l’evoluzioni!)
Però, ricoverato, era… già … ito,
de ‘spirazione ‘r mejo de’ modelli! - Don Giggi ‘r còre granne t’ha tradito! -
come je scrisse chiaro, ‘n carcerato
- Pe’ amà senza riserve li… fratelli, nun te sei accòrto che l’hai conzumato! –
Premio speciale giovani per la poesia “È per te, poeta, il creato “
Se è raro trovare oggi dodicenni dediti alla scrittura poetica, è ancor più difficile imbattersi in una preadolescente, e cioè Giulia Di Cairano, che con la sua lirica E’ per te, poeta, il creato , dimostra di avere fin da ora una sensibilità poetica davvero sorprendente. Secondo Giulia i poeti sono gli unici in grado di cogliere il senso più profondo delle cose, del Creato, e delle opere del Creatore. Le otto strofe del componimento offrono ciascuna delle efficaci, sorprendenti metafore, che sono il segno di come Giulia è già predisposta a trasfigurare il reale lavorando con e sul linguaggio: “ponte legnoso della vita”; “i tramonti / aprono i sipari dei loro palcoscenici”; “ali / fragili frammenti di veli trasparenti”; “la preghiera/ diviene una poesia muta”. (Giorgio Taffon)
È per te, poeta, il creato
È per te che l'umanità
protesa fronda di una solenne betullasi erge e si eleva.
È per te che la natura
tela pennellata da sfumature innumerevoli
avvolge e consola.
È per te che le autunnali foglie leggiadre
cadendo dal ponte legnoso della vitadanzano e si raccolgono in soffice bara.
È per te che i tramonti
aprono i sipari dei loro palcoscenicicon gli abbracci tra il romantico sole rosato e la timida luna cerulea.
È per te che le ali
fragili frammenti di veli trasparentipermettono agli angeli di volare e di librarti con la fantasia.
E' per te che il mare
dimora dei misteriosi abissiondeggia danzando e accarezzando la coItre di sabbia solitaria
È per te che i fiori
essenze di profumi incantevolirispecchiano l'infinito splendore del Creatore.
È per te che la preghiera
diviene una poesia mutache fa incantare il Signore dell'Universo.
agli alunni Anastasija Lalevic’, Sara Tomic’, Paule Grogic’ , Teodora Durickovic, Andrea Kaleric’ ,Marko Dasic’,
della VIII classe della scuola Pavle Rovinski di Podgorica, Montenegro
per il progetto scolastico “Sogni e bisogni”
Non c’è esagerazione nel definire bellissime le poesie di questi giovani poeti montenegrini, che la Prof.ssa Angela Baturan ha portato ad un livello ammirevole di espressività poetica. Vi si respira un’aria incantata, di ampi spazi agresti, di boschi, di attenzioni familiari, di giovani amicizie, di lavoro e coraggio, in una parola, di vita vera dove plasticamente “con una fionda in mano il piccolo guerriero… lancia il pensiero verso il cielo blu”. (Renato Fiorito)
Veritiero
(di Sara Tomić VIII 1 /13 anni)Lì arrivano sogni che vengono dal cuore.
“E come ci vanno?” – Vedi il vento che danza?
“Ecco chi li solleva! Anche quelli del pastore?”
Rassicura la mamma con dolcezza antica
suo figlio a cui non manca né tenacia né coraggio. Luccichio negli occhi, tutto meravigliato:
“Forse lo vedrò, uno di mille anni – l’albero saggio.”
“Sentirò odori mai sentiti, suoni sconosciuti!
Vedrò la nave – una tenda che sull’acqua galleggia, il mare che sentieri non ce li ha,
porto profumato – Hong Kong e reggia.”
Sorveglia i suoi yak nel mezzo della steppa
con una fionda in mano il piccolo guerriero. Lancia il pensiero verso il cielo blu, così, per ogni caso,
per non smarrire il sogno veritiero.
I snovi su plavi u Mongoliji
Od plavog je tkanja nebeska soja, plavi su i snovi./ Iskrene želje nebo ne probira.</ “A kako polete?”- >Može li vjetar da pleše?< / “Da, a uzdiže li i snove malih pastira?” // Mekanim glasom uvjerava mati sina / da mu ne manjka vrlina. / Od radosti zacakliše mu oči: / “Jednog dana sješću pod stablom maslina!” // “Omamiće me ukusi začina, zvuci nečuveni!/ Vidjeću šator na beskrajno širokoj rijeci da šeće, / put koji staza nema a zovu ga more, / mirisnu luku Hong Kong i kuću od koje nema veće!”// U srcu stepe sa praćkom u ruci čuva / krdo jakova ovaj pastir mali./ Sa njom snove u plavetnilo šalje, /za svaki slučaj, da se ne izgube, da ne bi pali.
LAURA CORRADUCCI
1° classificata con la poesia “A Taedus Pankiewicz”
La poetessa Laura Corraducci, con il testo presentato in concorso, dedicato a Tadeus Pankiewicz, farmacista polacco del ghetto di Cracovia, affronta il grande tema dell’antisemitismo e delle sue tragedie, calandosi nelle storie personali di protagonisti comuni, in vicende minime capaci però di assorbire e rilasciare, come un farmaco letterario, il dolore, la sofferenza, ma anche la speranza di una generazione, di un’epoca, di un popolo. Ecco allora il figlio di Tadeus Pankiewicz, farmacista del Ghetto di Cracovia, che spia dalle vetrine del negozio del padre, piene di farmaci e composti, i rastrellamenti nazisti, le lacrime che rigano i volti dei bambini, la paura delle donne strette nei vestiti, con i capelli legati, la rassegnazione antica negli occhi degli anziani dal viso semita. La poetessa compie un rito memoriale, offre un exemplum dipingendo icone vivide con una semplicità netta, esente da inutile retorica, fino a dar senso alle stelle che, strappate al firmamento, «adesso brillano tutte sulla lana dei cappotti». Testo che incide la carta con l’esperienza viva e terribile della Shoah e della deportazione. Nulla va dunque perduto in questa poesia: la lingua pulita, la sonorità semplice e armonica, le immagini ricche e una tensione etica che restituisce alla poesia il senso pieno della testimonianza. (Renato Fiorito)
A Taedus Pankiewicz (farmacista polacco del ghetto di Cracovia)
mio padre aveva una farmacia all’angolo
dove l’aquila dall’alto spiegava le sue ali
e vedeva uomini e donne fermi in piedi coi soldati
le madri stringersi i seni nei vestiti
i vecchi quelli venivano per primi
soli con i volti allungati delle capre
e il cielo caricato tutto sulla schiena
poi le donne con i capelli legati alle forcine
il velo delle lacrime strappato via dagli occhi
i bambini non avevano il permesso di gridare
una striscia di universo che cadeva obliqua sulla piazza
solo qualche sparo ogni tanto a coprire le voci
e mio padre ogni mattina sistemava bene i suoi composti
le stelle Dio le ha portate via dal firmamento
adesso brillano tutte sulla lana dei cappotti
e “in quelle” mi diceva “ci dobbiamo rispecchiare”
dove l’aquila dall’alto spiegava le sue ali
e vedeva uomini e donne fermi in piedi coi soldati
le madri stringersi i seni nei vestiti
i vecchi quelli venivano per primi
soli con i volti allungati delle capre
e il cielo caricato tutto sulla schiena
poi le donne con i capelli legati alle forcine
il velo delle lacrime strappato via dagli occhi
i bambini non avevano il permesso di gridare
una striscia di universo che cadeva obliqua sulla piazza
solo qualche sparo ogni tanto a coprire le voci
e mio padre ogni mattina sistemava bene i suoi composti
le stelle Dio le ha portate via dal firmamento
adesso brillano tutte sulla lana dei cappotti
e “in quelle” mi diceva “ci dobbiamo rispecchiare”
2° classificata con la poesia “Perdonarsi”
“Provare a perdonarsi non è cosa da poco” dice Nadia Scappini, poiché, per farlo, bisogna dimenticare i torti, smettere la contabilità malevola del dare e dell’avere, l’intreccio di spine che aliena. Lezione da accogliere dunque sia come persona che come comunità. Quanti conflitti infatti nascono dalla caparbia memoria dei torti veri o presunti subiti? E quanto sarebbe meglio fare quel semplice gesto di riappacificazione, la carezza che spezza la catena della rivalsa e apre il cuore all’altro. (Renato Fiorito)
Perdonarsi
provare a perdonarsi non è cosa da poco
ci riesce meglio chi ha scarsa memoria
perché bisogna allontanarsi da quel sé cattivo
che ricorda tutto nei minimi dettagli
le ferite le omissioni le occasioni mancate
le colpevoli distrazioni
bisogna appendere gli abiti della festa mai usati
gli assolati giorni consumati al buio
la fame d’essere altrove
le incrinature delle assenze
il rimpianto di mancate esperienze
(un film un viaggio l’opera all’Arena)
battere i pugni sulla tua pena sulla mia
che ferma anche il respiro mentre stai arreso solitario dietro una cortina scura
e non mi fai capire il dritto il rovescio
il rovello che ci sfianca
l’intreccio di spine che ti aliena
vedi
sta a noi puntare al sogno o pugnalarlocome sanno le stelle nel crudo dell’amore
quasi il cielo fosse franato a terra
e la maestà dei platani non potesse placare
l’angoscia del cadere l’urto di una folata gravida
aspra e gelosa al lucido fogliame
perché, vedi
non siamo soliquello che è stato ancora e ancora ci canta dentro
rotondo e chiaro come l’annuncio di un frutto asprigno
che però basta schiacciare per sentirne l’umore dolce e rosso
inondarci le labbra e ogni fibra in petto
provare a perdonarsi non è cosa da poco
lascio la buona memoria i minimi dettaglile omissioni le occasioni mancate le colpevoli
distrazioni e tutto il resto
solo che torni un gesto
il tocco della tua mano a bruciare la mia nuca
PAOLA BALLERINI
3° classificata ex-aequo con la poesia “Era questo fare casa sul greto”
Intensa e sofferta, questa lirica di Paola Ballerini. La scala da salire e scendere è quella che ci interroga sul senso della vita e che serve ad attraversare il nostro tempo, superando la solitudine e il silenzio che ci circonda. Scala con croci, che ha echi evangelici di un Golgota laico, trattato con pudore e senso della misura. Nessuna ostentazione di facili effetti, solo riflessione profonda e struggente sulla condizione umana e ricerca di una luce che appena ne sfiora il dolore. (Renato Fiorito)
Era questo fare casa sul greto
come una sepoltura chiusa
e questo furioso
piantare
tra le doglie e la vista
la scala scura di muschio salita
e scesa mille volte con diversi
passi
la scala con le croci
soglie silenzio
filari di rose le pause
per fare e fermare
il tempo i nostri anni pulire
il vetro
somministrare luce
l’ascesa al monte
la nuova discesa alla casa la scala cresceva
funicolo
tra le radici e le piume
la fatica e la pratica
misurava il dolore spuntato dai
cipressi nella lenta salita era
la traiettoria dei padri che
si faceva riparo fino
allo spazio
fuori dall’esilio
Scala del Monte alle Croci
3° classificata ex-aequo con la poesia “ ‘Na crùci n’à puttài mai”
Scrittura chiara e apparentemente spontanea, versi che nascono dalla lingua parlata in area catanese e che proiettano al futuro un DNA etnolinguistico altrimenti perduto. La particolare cadenza dei versi, ancorata a una serie di ritorni sonori, assonanze e, in particolare, le tre anafore («‘na crùci», «mi passi», «fossi») ricordano le cantate popolari-rurali attingendo a una matrice sacro-scritturale implicante i registri del canto, dell’invocazione e della preghiera. Il risultato è una poesia a forte impatto empatico, arcaicamente autentica e sorgiva. (Manuel Cohen)
‘Na crùci n’à puttài mai
‘Na crùci n’à puttài mai –
i spaddi l’àiu – e macàri a pàssiu –
‘na crùci n’à fici mai –
ma ‘à visti –
‘à canciài –
mi canciàu –
a putèva bruciàri
quannu facèva friddu intra e fora –
mi passi bèdda –
mi passi fìmmina –
mi passi ‘na cosa
ca putìssi chiamari macàri stìdda –
‘n ‘na crùci nun ci poi appènniri nenti –
fòssi è ‘na finestra sbagghiàta –
fòssi è n’amùri ppu cielu –
fòssi addìtta –
fòssi macàri ca è cuccàta
sèmpri amùri apèttu è.
Una croce non l’ho mai portata – le spalle ce l’ho – e anche la passione – una croce non l’ho mai fatta – ma l’ho vista – l’ho cambiata – mi ha cambiata – la potevo bruciare quando faceva freddo dentro e fuori – mi è sembrata bella – mi è sembrata femmina – mi è sembrata una cosa che potrei chiamare destino – in una croce non puoi appendere niente – forse è una finestra sbagliata – forse è un amore per il cielo – forse all’impiedi – forse pure che è coricata è sempre amore aperto.
MEDAGLIE D’ONORE
Medaglia d’onore per la poesia “Idròbate”
Poesia dolorosa e intensa, questa di Lea Barletti, nella quale il dramma degli annegati viene descritto in contrapposizione alla forza del volo, l’immensità dello spazio opposta all’angustia della persona, per dire che ormai il cielo non è più sinonimo di libertà. Il volo in questo spazio tempestoso infatti non può fare dimenticare che laggiù, nel regno delle alghe, un mondo rovesciato e ingiusto consuma ogni giorno il suo dramma silenzioso: il sacrificio degli ultimi, dei rifiutati, degli abbandonati sul fondo degli abissi, dei quali “pesano nelle ossa / le anime gonfie / che non raggiunsero la riva”(Renato Fiorito)
Idròbate
Idròbate
uccello delle tempestemi frullano in petto quest’oggi
le tue ali di forte volatore
piccolo corpo d’aria e di fuliggine
agiti dentro questo mio angusto spazio
la nostalgia di un vasto cielo sull’oceano
dove
sollevata dalle correnti
la vista s’allarga, si spinge più in avanti:
piume come memoria
coda come distanza
timone
misura della speranza.
Ma non riesco a liberarti
vedo:più giù nel regno delle alghe
sotto un cielo invertito e ingiusto
riempire le bocche degli annegati
un pasto di umido e di buio.
E mi pesano nelle ossa
le anime gonfie
che non raggiunsero la riva:
non ho ali così forti
per sollevarle dal muto fango della storia
non ho denti
per strappare la morte dai loro
denti
e le mani
le mie mani
e le loro mani le loro mani
le divorarono la fame e la paura.
Medaglia d’onore per la poesia “Come qualcosa che dura”
Di questa poesia sono apprezzabili il verso limpido, il tono pacato, le immagini convincenti. Lo scorcio di vita quotidiana che offre il pretesto del componimento permette il passaggio dal particolare all’universale con naturalezza: l’osservazione quasi intimistica del dettaglio si concilia alla riflessione più generale sull’esistenza e sulla relazionalità. Affiora un senso di lucida accoglienza del limite, nell’accenno discreto alla nostra piccola, personale resistenza, che ci rende solidali proprio in virtù della nostra fragilità. (Raffaela Fazio)
Come qualcosa che dura
e così necessarie
le nostre vite piccole,
di condominio globale,
dove ciascuno porta in mano
il desiderio di spartire parole,
attraverso lavori di riattamento,
scambiandosi qualche tenerezza,
una promessa, la piantina in dono,
magari una fede segreta.
Si cammina verso
brevi traguardivotati al fallimento,
eppure con un filo di sorriso
andiamo sussurrandoci a vicenda
non è detto, non è detto,
in questa palazzina di mondo
(e ci crediamo davvero):
possiamo cambiare anche pelle
come sanno fare le cicale.
Intanto ottobre, senza alcuna pena,
ci trova proprio come le cicaledistratti dalla fine, impreparati.
Medaglia d’onore per la poesia “Mani viola”
Un’atmosfera incantata da tempo perduto, che viene proustianamente ritrovato per essere consegnato al lettore. È una sospensione restituita intatta, in cui la genealogia di gesti quotidiani è sacralizzata. Un tempo prima della storia, consacrato dalla semplicità. Una poesia con echi antichi, in cui sembrano risuonare remote litanie, formule di una ritualità dimenticata, che sono amplificate dal dialetto. Gli slittamenti sonori rendono questa esperienza poetica una scoperta viva d’inaspettata bellezza e intensità. (Flaminia Cruciani)
Mani viola
Eo me lo chiedea spissu
comme ficesse pe chella via mulattieraa tené ferma sulu co la capoccia ‘lla sorte ‘e bagnarola,
quanno gliémo agliu Canale, che me parea a fine egliu munnu,
ammézzo a chelle acacie
sotto alla chiesetta sópre agliu sprofunnu.
A essa ‘ngli piacea i’ lòco abballe
e m’arecordo ca chigliu giorno o friddunna ficea move comme se l’ésse acchiappata na tagliola,
ma continuénno a sbatte e a lavà i panni
lle pòre mani diventèno sempre più viola.
Era riazza, a chigli témpi, mamma
e de certo nnea paura ‘e faticà,ma all’arevenì ‘ngima, i pisu era nvussu,
così carica comme un mulu, ngnella ficéa mancu a respirà,
e co gliu silénzio che cala co la neve
se sentea sulu i fischiu egliu refiatu
e ogni passu che s’affonnéa diventea ovattatu.
Mani viola
Mi chiedevo spesso come facesse / per quella via mulattiera / a tenere in equilibrio sulla testa / quell'enorme bagnarola,/ quando si andava al vecchio lavatoio / circondato dalle acacie, / sotto la chiesetta sullo scapicollo. // Lei non amava andar laggiù / e ricordo che quel giorno il freddo / le impediva i movimenti come una tagliola, / ma continuando a sbattere e lavare panni / sopportava le sue mani sempre più viola.// Era giovane allora la mia mamma / e non temeva certo la fatica,/ ma al ritorno il peso era bagnato, / così carica come un mulo, / riusciva a malapena a respirare,/ e avvolti nell'assoluto silenzio bianco,/ si udiva solo l'eco fumante del suo affanno / e della neve il crepitare.
Medaglia d’onore per la poesia “Fioriture”
La fioritura a cui il poeta Carlo Giacobbe allude è si quella della natura, fioritura d’erbe e di mandorli, ma è soprattutto fioritura intima, di luce interiore, di comunione con l’amata e che trova corrispondenza nel corpo che si apre alla nuova stagione. Ed è a questa fioritura del cuore che il poeta appende il suo desiderio di infinito, lo stupore senza fine per “l’apparizione d’un pesco rosa sul vallone innevato e nei roveti d’ogni bosco dell’esistere…” (Renato Fiorito)
Fioriture
Non perdere mai
le fioriture di mandorlo negli occhi -dico in me, alla tua luce
gridata dal corpo
ora che sei acuta erba di grano
ai magnetici cieli d’aprile, festa d’acqua assolatasui frutteti che mi crescono
dal cuore
resta così, non sia d’impaccio o soma
l’abito cadutomi addosso -sii tu, tesa alle azzurrità smarginate
d’avvenire, vedi:
non ho che questo ramo d’anni
da offrire, usalo, come vuoi, finché tiene -tra stare e volare via
e al possibile dai credito, seppure tale
non appare, vedrai - coglierà
il tuo stupore
l’apparizione d’un pesco rosa
sul vallone innevato
e nei roveti d’ogni bosco dell’esistere -
quando domanderai al cielo - e ora? -
segui sempre l’infinitesimale brillio
che chiama al fondo
cono del buio: lì, dove sfoga l’infinito.
Medaglia d’onore per la poesia “Lo stupore dei corpi”
La fisicità poetica prende forma nei versi sciolti dell’autrice che ci regala un’immersione nell’esistenza con i suoi segni, le sue cicatrici, tra sorrisi e umanità. “E’ dalle ferite che s’impara il volo” è il verso più incisivo che proietta il lettore alla comprensione della vita, tra stupore e meraviglia, luci ed ombre. Con una scrittura essenziale, ma efficace la poetessa riesce a mantenere una semplicità che avvolge e rassicura. (Michela Zanarella)
Lo stupore dei corpi
Vorrei darti le tre linee rosse sul mio ventre,
dove s’è incurvato all’annoso peso del dolore;le pieghe della fronte, ché nei pensieri t’assomiglio;
le cicatrici delle vaccinazioni sulle spalle,
per ricordare che ci vuole impegno per guarire
e perché è dalle ferite che s’impara il volo;
vorrei darti le rughe dello sguardo, i segni
del mio sorriso sulle labbra, come stelle screpolate;
i calli duri sotto i piedi, la pelle che invecchia,
ma lentamente, negli angoli nascosti;
il sale nell’acqua, perché il mare ci serve,
e le spine tra le more e sui gambi delle rose,
perché tu capisci tutto quello che c’è dietro.
Dimmi che il cielo ti contiene, non credo
a un paradiso senza lo stupore
dei corpi, la meraviglia delle dita, gli usi proibiti
delle mani e della lingua, a un paradiso senza il freddo
e la saggezza del brivido caldo che scorre nelle vene.
Dimmi che il cielo ti contiene, che è abbastanza grande,
non credo
a un paradiso senza i tuoi occhi.
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