Stralcio dell'intervista al poeta Franco Buffoni.
L'intervista completa è sui nn. 10 e11 di Menabò 2022
Quello
che avevo dentro era poesia
(1° parte)
Franco Buffoni è nato a Gallarate nel 1948
e vive a Roma da oltre vent’anni. Poeta, narratore, saggista, traduttore, ha
insegnato nelle Università di Parma e Trieste, soggiornando spesso anche all’estero.
Ha esordito nella poesia grazie all’incoraggiamento di Giovanni Raboni. Come
traduttore si è dedicato in particolare ai poeti romantici inglesi, tra cui
Keats, Byron, Coleridge e ha fondato la rivista «Testo a fronte» (1989),
semestrale di teoria e pratica della traduzione. Tra i numerosissimi libri di
poesia citiamo: Il profilo del Rosa (Mondadori 2000), L'Oscar Poesie 1975-2012
(Mondadori 2012) Jucci (Mondadori 2014), La linea del cielo
(Garzanti 2018), Betelgeuse e altre poesie scientifiche (Mondadori
2021).
La sua biografia è così ricca di eventi e interessi che è difficile stabilire quali aspetti trattare e quali trascurare, volendo fornire al lettore un’idea qualificata ancorché frammentaria della sua attività. Mi sembra significativo tuttavia iniziare da L'Oscar Poesie 1975-2012 (Mondadori 2012 - Premio Alda Merini) che raccoglie quasi quarant’anni di poesie, poiché racchiude molte discipline, punti di vista diversificati e percorsi che si snodano lungo uno straordinario filo narrativo che mi piacerebbe spiegasse nelle linee essenziali.
L’intitolazione dell’Oscar (Poesie 1975-2012) fa riferimento alla produzione poetica “adulta”. Solo a partire dal 1975, quindi a ventisette anni di età, riprendo a scrivere poesia in modo continuativo e consapevole, diciamo adulto, distruggendo tutto quanto avevo scritto in precedenza e mai pubblicato. In sostanza non ho scheletri nell’armadio, pubblicazioni giovanili di cui dovere arrossire. La mia vita era quella di un ventenne effervescente, curioso di tutto. Ero portato per le materie scientifiche, dalla microbiologia all’astrofisica, volevo imparare tutto, capire tutto… Avevo notevole forza fisica e capacità di resistenza… Poi crollavo e dormivo anche ventiquattr’ore di seguito… Non sentivo la stanchezza… Quello che avevo dentro era poesia. Il mio rapporto col mondo era in sé poetico, e questo mi aiutò a superare le pastoie dell’educazione cattolica e la mentalità piccolo-borghese della famiglia d’origine. Intanto andava formandosi anche una coscienza filosofica profonda, grazie agli studi compiuti in Inghilterra, dove avevo avuto l’opportunità di coniugare la filosofia analitica al diritto. Ecco quindi che il mio poiein, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta - apparentemente in ritardo rispetto a quello dei coetanei - in realtà fu una lunga rincorsa nutritasi selvaggiamente di tutto, e dai benefici effetti. Mi dà ancora una spinta creativa genuina, sento di non avere il fiato corto nella scrittura poetica. Ciò che seminai in quel decennio dei vent’anni ha radici talmente profonde da riuscire a produrre frutti ancora oggi.
Nel 2014 ha pubblicato con Mondadori, “Jucci” per il quale ha ricevuto numerosi premi tra cui il “Viareggio”. Il libro narra del tormentato rapporto d’amore con una donna, costantemente minacciato dall’emergere dei segni di una sofferta omosessualità. Un amore centrale però, tanto che, quando Jucci muore di cancro, lei scrive in una poesia di grande delicatezza e potenza espressiva: “per me tu sei rimasta dove il fiume fa l’ansa…/ Non ti ha presa nessuno, soltanto il fiume…”. Vorrei chiederle quanto questa relazione ha inciso poi nel suo processo di creazione poetica.
Colpisce il suo viaggiare, sia letterario che fisico, da un paese all’altro, da una disciplina all’altra, da una lingua all’altra. Un’instancabile curiosità che testimonia l’insofferenza verso parametri culturali dati e l’ansia di esplorarne di nuovi. Emblematica al riguardo è la raccolta Betelgeuse e altre poesie scientifiche, pubblicata nel 2012, che si muove tra gli estremi dell’infinitamente piccolo (microbiologia) e dell’infinitamente grande (astrofisica), come a dire che nessuna limitazione può essere posta al pensiero umano e un invito a uscire dalle ristrettezze dell’io per aprirsi a un respiro più ampio. Da dove nasce e quale importanza riveste in poesia l’infelicità e il desiderio di andare oltre?
Apprezzo molto questa domanda, perché mi permette di
rispondere che il mio antidoto contro l’infelicità è sempre stata la
conoscenza. Il desiderio di coniugare istanze provenienti dal mondo
dell’astrofisica con istanze provenienti dal mondo della microbiologia mi
accompagna dall’adolescenza, quando ebbi modo di seguire gli studi di mia
sorella, laureata in fisica nucleare, e di mio cognato biologo. (I quali in
seguito, riproducendosi, hanno dato vita ai miei nipoti Stefano e Paolo:
dedicatario - il primo - del libro di poesia Theios; e interlocutore - il secondo - nel libro in prosa Più luce, padre). In Betelgeuse e altre poesie scientifiche
numerosi sono i passi afferenti all’uno e all’altro ambito, permeati tutti
dall’ansia di comprendere metodi di studio lontani dai miei di
specializzazione. Un’ansia che cerco quotidianamente di appagare leggendo
articoli di divulgazione scientifica. In una di queste incursioni - che un
tempo avvenivano in biblioteca, e che oggi posso effettuare comodamente a
schermo - mi sono imbattuto in una dichiarazione del 2020 di Lewis Mosby,
ricercatore presso il Dipartimento di Fisica della Warwick University,
pubblicata sul “Biophysical Journal”: “Abbiamo usato un algoritmo sviluppato
per rilevare galassie e altri corpi celesti: è stato emozionante applicarlo
all'estremità opposta della scala di grandezza. La nostra ricerca ha fornito
importanti informazioni sul funzionamento delle cellule muscolari dei mammiferi,
e inoltre ha posto l'accento sulla possibilità di studiare un modello per nuove
tecnologie intelligenti, basate proprio sulle interazioni tra le proteine.
Sarebbe possibile assumere forme diverse in base al consumo di energia
richiesto". La ricerca di cui parla Mosby concerne i movimenti dei muscoli
delle cellule e dei filamenti di proteine che le compongono; ma non è tanto la
sostanza di quella ricerca che mi interessava esporre, bensì l’entusiasmo del
ricercatore, che a cinquant’anni di distanza dalle mie emozioni giovanili,
ricorreva proprio alla categoria dell’emozione con riferimento alla possibilità
di applicare alla microbiologia lo stesso algoritmo usato in astrofisica. Non
guardando alla scienza come a una costruzione essenzialmente teorica - come
scelta cioè di una ipotesi esplicativa della realtà, ogni volta stravolgente il
senso delle proposizioni precedenti - ma come empiria: come l’aggiungersi di
conoscenza a conoscenza, nella convinzione che il raggiungimento del Sapere sia
al tempo stesso il raggiungimento della perfezione umana e quindi della
felicità. Ponendoci - nei confronti della nostra quotidianità - nell’ottica
microbiologica dell’infinitamente piccolo e astrofisica dell’infinitamente
grande, riusciamo infatti a rendere maggiormente meditativo e degno il nostro
vivere, all’interno di quella che Paolo Virno in tempi recenti ha definito la
consistenza al contempo ontologica e impersonale della natura umana,
l’intersezione di logica e antropologia, ovvero delle abilità, degli affetti,
dei requisiti biologici e delle situazioni storiche che ci definiscono come
animali loquaci. Mi ha fatto piacere - in questa ottica - che “Il Corriere
della sera” abbia affidato la recensione del libro non a un critico letterario
ma al filosofo della scienza Telmo Pievani.
Tra le sue raccolte citiamo: La chiave di vetro (Cappelli
1970); Motivetto (Spada
1978); Dediche e bagatelle
(Rossi & Spera 1990); Poesie
1975-1995 (Empiria 1997 e 1998; Favole dal giardino (Empiria 2004 e
2013); L’albergo delle fiabe
e altri versi (L’orecchio acerbo, 2007); Simmetrie (Mondadori Lo
Specchio, 2007); Nel tempo della madre (La Vita
Felice 2011); In margine e
altro, (Oedipus 2011); Rifrazioni (Lo Specchio Mondadori 2018) .
Davide Rondoni è uno dei più significativi poeti italiani contemporanei. Ha pubblicato diversi volumi di poesia, tra i quali: Il bar del tempo (1999), Avrebbe amato chiunque (2003), Compianto,vita (2004), Apocalisse amore (2008), Rimbambimenti (2010), Si tira avanti solo con lo schianto (2013), con i quali ha vinto i maggiori premi. È stato tradotto in vari Paesi, collabora a programmi di poesia in Tv e radio, è editorialista di quotidiani, ha fondato il “Centro di poesia contemporanea” dell’Università di Bologna e la rivista «clanDestino». Ha pubblicato romanzi e saggi, è autore di teatro e di traduzioni da Baudelaire, Rimbaud, Péguy. Ha partecipato a numerosi festival internazionali di poesia.
Stralcio dell'intervista a Davide Rondoni
(L'intervista completa è sul n.7 di Menabò - febbraio 2021.)
La rivista è ordinabile a Terra d'ulivi edizioni
“Non c'è cosa più stupida che definire
le persone invece di ascoltarle”
1. Ci si chiede spesso quale funzione abbia la poesia. Le
risposte possibili sono molteplici: da quelle che le attribuiscono il potere
taumaturgico di trasformare in armonia e bellezza le brutture del mondo a
quelle che le negano ogni utilità. La risposta più dissacrante l’ho trovata in
un verso dell’australiano Les Murray: “Perché scrivere poesia? per essere
stranamente/ disoccupati. per i mal di testa indolori da sfruttare/…” Tra
questi due estremi dove colloca la sua risposta?
Che bello che citi Les Murray. Les era
un geniaccio. L'ho conosciuto e abbiamo fatto un paio di letture insieme. Le
sue poesie e i suoi saggi sono tra i più belli del Secondo Novecento. Pensa
cose strane, dicevano di lui gli altri poeti più in linea col pensiero
dominante, ma lui era un genio, loro no. E quindi la sua apparente
"trovata" la preferisco rispetto alla retorica della prima
definizione che pur ha qualche traccia di vero. Il fatto è che la poesia non
serve a niente, ma a quel niente che appartiene alle cose inutili, che appunto
non "servono a niente" e che perciò danno senso alla vita. Nel senso
che è incommensurabile ciò a cui servono... A che serve l'amicizia vera, quanto
vale? a che serve il dolore, a che serve un bacio? Come lo misuriamo? L'ho
scritto mi pare in un libro che si chiama "L'allodola e il fuoco". Lì puoi
trovare cose su questa faccenda.
2. Il suo ultimo libro “Quasi un paradiso” è un atto d’amore
verso la Romagna, un viaggio attraverso luoghi, personaggi e ricordi conditi
col gusto per la battuta iperbolica e a volte salace che, per qualche verso, fa
pensare alle straordinarie atmosfere felliniane di Amarcord. Quali affinità sente con il grande regista
riminese?
In realtà quasi nessuna. Certo, le
atmosfere rievocate da quel film appartengono un po' a tutti i romagnoli e a
chi pensa di conoscerli, ê una bella cartolina come quelle dei delfini
ammaestrati che hanno messo, bellissima, in copertina al libro. Emblemi, luoghi
comuni nel senso non solo negativo del termine. Ma per capirli davvero, per non
fermarsi alle cartoline occorrono sondaggi e veri acuti e trascendenze che
Fellini non aveva e non ha avuto interesse a fare, ormai lui era
barocco-romano-occultista, oltre che essere nato nella "grande
Romagna" e non nel cuore della "piccola Romagna" come spiego nel
libro. Meglio vedere le statue di Ilario Fioravanti, le poesie di Lello
Baldini, di Nino Pedretti, di Tolmino Baldassarri, di Giovanni Nadiani. E il
mio libro rovescia un po' di quei luoghi comuni, penetrandoli, guardando
l'altra parte dell'arazzo. Fellini con la Romagna sta un po' come i gladiatori
travestiti sui fori imperiali a Roma...
Non so bene da quale costellazione o
albero vengo, tanti sono gli innesti, le comete, il confondersi di incontri e
collisioni, certo la lezione di Luzi (e Betocchi dietro di lui) e di Testori
hanno giovato a non "credere" nella letteratura se non come in una
meravigliosa e limitata arte, non come a un mito o, peggio, a un idolo. Da qui
forse quel che chiami "lontananza dalla retorica" o meglio assunzione
di una retorica intesa come arte della parola che cerca di stare, come diceva
Luzi della poesia, "pari alla vita". E questo costa tanto lavoro e
spoliazione da tante seduzioni anche della critica o del consenso.
Maria Grazia Calandrone (Milano, 1964) è figura di primo piano nel panorama letterario italiano. Poetessa, scrittrice, giornalista, drammaturga, artista visiva, autrice e conduttrice Rai in programmi come Alfabetiere poesia, Poesia in technicolor, Da poeta a poeta, antologia sonora di poesia contemporanea su RaiRadio3; scrive per «Corriere della Sera»; codirige la collana «i domani» di Aragno Editore ed è nel Comitato di redazione di «Poesia», Crocetti Editore; è regista del ciclo di interviste “I volontari", un documentario sull'accoglienza ai migranti e del videoreportage su Sarajevo “Viaggio in una guerra non finita”, entrambi pubblicati da «Corriere TV».
Premio Montale 1993 per l’inedito, tiene laboratori di poesia nella scuola pubblica, in carceri e DSM e presta servizio volontario nella scuola di lettura per ragazzi “Piccoli Maestri”.
Vorrei
iniziare questa chiacchierata chiedendole del suo ultimo lavoro: Giardino della
gioia edito da Mondadori 2019 – 2020, perché mi sembra che esso rappresenti una
svolta importante nella sua carriera e la consacri definitivamente, anche agli
occhi del grande pubblico, come una delle figure più rappresentative della
letteratura italiana di questo inizio millennio. Cosa l’ha spinta a scrivere il
libro e come si colloca nello sviluppo del suo discorso poetico?
Innanzi
tutto grazie per le sue parole. E grazie per aver scritto “letteratura” e non
“poesia”, perché mi offre l’occasione di dire immediatamente che desidero
aprire la gabbia nella quale la poesia si è autoreclusa, parlando solo ai suoi
specializzatissimi adepti, chiudendosi in diatribe fra intenditori e smettendo
di parlare al suo popolo. Avevo già sperimentato la tecnica di montaggio di Giardino
della gioia con il libro precedente, Il bene morale: libri non
tematici ma compositi, che intendono raccogliere molteplici forme espressive
dell’umano. Credo che la poesia possa spingersi a essere inchiesta giudiziaria,
mantenendo la stessa dignità della lirica amorosa.
Giardino
della gioia è un libro ricco di tenerezza e umanità, libro di contrasto tra
anima e carnalità, miseria del vivere e sua felicità, tragedia del male e ansia
di riscatto. Se queste sono le caratteristiche più evidenti, ci aiuti a
coglierne qualche aspetto più nascosto e segreto.
Posso
osare dire che si tratta anche di un libro di narrativa, dotato di trama: il
macrotesto parla infatti dapprima di amore, poi di una rovinosa caduta nel
disamore e, quindi, analizza la nostra possibilità di compiere il male – che
dipende dalla incapacità di identificarsi con l’altro da sé. Alla fine, arriva
l’auspicabile scoperta del “puro esistere”, ovvero la gioia – troppo spesso
trascurata – d’essere vivi, che arriva a sostituire la maligna pretesa d’essere
amati. Un altro elemento che m’interessa è l’ironia, a volte quasi la comicità.
Nonostante
il suo titolo, che richiama l’idea del giardino e della gioia, e dunque della
bellezza, il libro parla soprattutto del dolore del mondo. Le chiedo se l’apparente
contraddizione si può spiegare col fatto che lei indica un percorso, suggerendo
l’idea che la consapevolezza della gioia nasce solo dopo che si è sperimentato il
dolore.
Proprio
così. Parlo di una gioia solidale, lieve, consapevole e stabile, conquistata non
avendo paura di affrontare la quota di sofferenza che la vita assegna a ciascun
vivente. Se diamo per ovvio che vivere implica una parte di male e dolore,
riusciamo forse a smettere di lagnarcene:
la
meta della consapevolezza non è, infatti,
produrre un incessante lagno
sulla raggiunta constatazione del male di esistere, ma comportarsi come la funzione-“ginestra”,
per usare la decisiva immagine del poeta più banalmente associato all’idea di
dolore, Leopardi. Il leopardiano il fiore del deserto, il fiore sul quale
incombe il Vesuvio distruttore, a differenza degli uomini non spreca il tempo della propria unica
vita a edificare la propria impossibile immortalità, ma impiega il tempo della
propria unica vita a profumare, a fare
cioè del proprio meglio per rendere più dolce la vita di tutti, fondando così, senza troppi proclami né
pretese di gloria, la “social catena”, sola possibilità di resistere al male
naturale.
Vorrei
iniziare questa intervista, di cui la ringrazio, con un suo ricordo. Nell’adolescenza
di molti poeti c’è spesso una poesia che li emoziona particolarmente e li spinge
a scrivere i primi versi. Ricorda se anche per lei è stato così?
R.
No, mi ricordo però di avere iniziato prestissimo, talmente presto che ho
trovato un quaderno scritto a 12 anni in cui avevo addirittura battuto a
macchina le poesie. Questo è veramente un segno di attenzione. Era stato mio
padre a dirmi: “Guarda, ci vuole serietà nella poesia”. Ripeto, questo è molto
più significativo che scrivere, perché scrivere è un atto spontaneo, impulsivo,
mentre mio padre, che era ingegnere, mi ha trasmesso un atteggiamento quasi
deontologico. Mi spiegava: guarda che scrivere, scrivono tutti, ma tu mettiti lì
e battile a macchina, perché se hai questa serietà, questa costanza, allora
vuol dire che forse è un interesse vero. Io vado molto fiero di questo. E le
dico una cosa sola che mi ha letteralmente indignato, non più di sei mesi fa. Ho
assistito ad una tesi di laurea di magistrale in cui il candidato non aveva
neanche messo il numero delle pagine! Ecco, lei dirà è una distrazione; no, è
una mancanza di rispetto, anzi, una forma di disprezzo verso il lettore. Se
fosse stato per me, lo avrei mandato a casa su due piedi.
Lei
è autore di sei importanti raccolte poetiche che sono poi confluite in un importante
volume, edito da Einaudi, intitolato “Le cavie” Poesie 1980 – 2014. Quali considerazioni
le suggerisce questo lavoro e cosa ci indica dei cambiamenti sociali, politici
e letterari che si sono registrati nel periodo?
L’interesse
di questo libro dipende dal fatto che praticamente racchiude 40 anni di
scrittura, infatti sei raccolte in quarant’anni fanno assistere anche al
cambiamento dello scrittore. Lo riassumo in una battuta: essendomi laureato in
storia della filosofia, quando ho iniziato a scrivere veniva fuori un tipo di preparazione
molto meditativo, speculativo. Diciamo che mi collocavo nel segno di Francis Ponge, il sommo grande poeta francese del ‘900;
la seconda parte delle raccolte, soprattutto le ultime due, si colloca invece nel
segno di Brecht; proprio io, che scrivevo una poesia di taglio filosofico, sono
arrivato a comporre invettive politiche, sia pure sotto forma di sonetti.
Insomma, c’è stato un profondissimo cambiamento, come in un testo intitolato “Giovani
senza lavoro”; 40 anni fa, mai avrei pensato di giungere a questo. Da questo
punto di vista posso definirmi uno scrittore sperimentale. Ho riscoperto
l’importanza di questo aggettivo. Così, se mi chiedessero cosa ho fatto,
risponderei: “Ho sperimentato”. Tanto è vero che il titolo complessivo è “Le
cavie”. Ebbene, chi sono le cavie? Sono animali da esperimento. Al di là di
tante polemiche che ho avuto, in parte posso dire di ricollegarmi alle
avanguardie storiche e al gruppo 63, specialmente ad Elio Pagliarani e Antonio
Porta, i primi forse che hanno creduto in me come scrittore.
Come profondo conoscitore della poesia francese, lei ha tradotto magnificamente Stéphane Mallarmé, Paul Valery, Paul Verlaine, Roland Barthes e Bernard-Marie Koltès. Per questi lavori ha ricevuto un importante riconoscimento dal Presidente della Repubblica. Mi piacerebbe sapere se e quanto questi poeti hanno influenzato il suo lavoro, e quale libro consiglierebbe a un suo allievo per appassionarlo alla poesia francese.
Il premio lo ebbi come direttore di una collana a cui tengo
molto: la collana Einaudi trilingue. Quello fu un bellissimo riconoscimento per
me.
Guardi, più che la poesia francese, per appassionare un
allievo alla poesia italiana un titolo ce l’ho, ed è un libro perfetto: “Poeti
italiani del ‘900” di Pier Vincenzo Mengaldo, un Oscar Mondadori che presenta i
poeti italiani fino al gruppo 63 e ad Amelia Rosselli. È un libro fantastico:
ci sono i poeti più importanti ma anche alcuni totalmente sconosciuti, che io
ho scoperto leggendo questa antologia. Perciò, se un ragazzo scrive, gli dico,
bene, ma prima di scrivere, leggiti questa antologia, troverai dei poeti che
non ti interessano, altri che ti appassionano… c’è di tutto, un vero supermercato…
parliamo in termini molto brutali ma efficaci. Le dico la verità, non esiste
l’equivalente nella poesia francese, anche se (e non mi faccio pubblicità,
perché il libro purtroppo non esiste più), scrissi molti anni fa un’antologia
intitolata “Poeti francesi del 900”, che in realtà si fermava al 1950. Poi l’editore,
Lucarini, fallì, e il libro non è stato mai più ristampato. Quello è stato un
lavoro nel quale ho speso tanto di quel tempo che forse sarebbe un’idea pubblicarlo
di nuovo.
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D. È stato da poco pubblicato da Mondadori il volume Tutte le poesie che antologizza ben 46 anni di poesie dal 1971 al
2017. Quali sono le ragioni che ti hanno spinto a realizzare questo lavoro?
Ti rispondo con una lettera ricevuta poco dopo la pubblicazione di Tutte le poesie. « Cara Biancamaria, mi scrive un lettore, le tue poesie mi fanno compagnia da un paio di mesi. Le apro e leggo come un libro di racconti. La mia semplicità mi permette forse un accesso non ostacolato. Spesso leggo una sola poesia alla volta, e mi dice qualcosa che mi serve : dell’importanza di non cedere allo scrupolo, rinunciando alla prima intuizione dell’osare e dire. Grazie, quindi ». Queste sono le ragioni profonde che danno il senso a una vita e a un’opera che, quasi senza interruzioni, si è protratta per decennni.
D. Tutte le poesie riunifica ben 5
opere. Ne nasce un mosaico, quasi un labirinto intricato, denso di significati,
duplice, destabilizzante. Ci puoi suggerire gli aspetti salienti dell’opera?
Non parlerei di un labirinto o di un mosaico, piuttosto di un percorso che
si rende visibile solo a una certa distanza. Potrei dire di aver disegnato,
senza accorgermene, un cerchio imperfetto, o meglio, infiniti cerchi
concentrici che non si chiudono mai su stessi, ma ad ogni giro modificano di
poco il tema, rilanciando l’assillo che lo alimenta e che è sempre lo stesso. Un
tormentoso girotondo che aumentando via via la velocità dell’intuizione poetica,
accresce la densità dell’insieme, svelando ciò che i singoli libri composti ad
anni di distanza l’uno dall’altro nascondevano. Questo non riguarda solo i
poeti. La vita e la storia in cui tutti siamo, volenti o nolenti, immersi,
sembrano sempre eguali, ma è una falsa impressione. Per i poeti vale una specie
di ulteriore consapevolezza postuma. Non tanto le intenzioni che contano poco. Ho
sempre pensato che se la poesia non c’insegnasse ciò che non sappiamo, sarebbe
inutile scriverla. Tutte le poesie
si apre con una specie di manifesto che proietta la sua ombra su tutto il
libro. Eccone il primo verso: Fra le piante dimentiche dai parti prematuri.
Un verso che quando apparve, nella mia prima plaquette Affeminata del 1976, si presentava già «gravida» , per
dirla con Diotima che Socrate riconosceva come sua maestra d’amore, di pensieri
e di emozioni che avrebbero avuto un lungo seguito nella mia storia personale.
Insomma questa poesia agì dentro di me come una specie di capobranco, una
madrina di una mandria fedele. Non ha titolo, ma da sempre la orna la famosa
citazione del leopardiano giardino sofferente. A dir
la verità la sua anticipazione in rivista un titolo ce l’aveva: De rerum
natura che affiancava Lucrezio
a Leopardi. Il trauma della nascita con
i suoi turbamenti primordiali vi si mescolava ai «femminili trasalimenti», da cui
sgorgava l’invettiva dell’ultimo verso: « Da oggi dichiaro la decomposizione
viva della specie / padrona e non complice / natura maligna / io cesserò
d’imitarti ». La protesta contro la natura matrigna, il trauma della nascita e
della «seconda nascita», o del «risorgimento di Narcisa», percorre tutta la mia
opera, dal Rumore bianco alla Materia prima, la raccolta terminata proprio in procinto della
pubblicazione di Tutte le poesie. In
una bella recensione Maria Grazia Calandrone, poeta critica, sostiene che “la
materia prima” della mia scrittura coincide con la mia identità politica e
umana. Il suo nome è Libertà, anche quella di allontanarsi dalle urgenze della
contemporaneità e, sono parole sue, «inoltrarsi nel tempo senza tempo che
occhieggia al fondo della nostra esistenza come l’osso sta immerso nel denso del
corpo». Chissà se è vero. Sicuramente lo
è per la sua poesia. Del resto, pur parlando sempre di sé, la poesia parla
sempre d’altro. E ad altri.
D. Nel 1977 curasti l’antologia Donne in poesia, storico osservatorio sulla poesia al femminile che ebbe il merito di valorizzare un materiale incandescente e ancora in evoluzione. Oggi, abbattuti gli steccati di genere, registriamo con piacere l’ingresso massiccio e direi maggioritario delle donne nel campo della poesia. Se le cose stanno davvero così, c’è ancora bisogno, secondo te, di parlare di poesia al femminile o non sarebbe più giusto parlare tout court di poesia?
Penso che parlare di poesia al femminile ha ancora un senso. All’Università, eppure avevo maestri eccellenti, conoscevo appena i nomi delle grandi scrittrici del passato. Nessuno le onorava di corsi appositi. Non riesco nemmeno a ricordare quando cominciai a leggere Morante, Deledda, oppure, tra le straniere, Virginia Woolf, le sorelle Bronte, Simone De Beauvoir. Mentre ricordo benissimo di aver adorato, grazie al personaggio di Natascia, Guerra e pace, che lessi ad appena quattordici anni. Ma la storia dei personaggi femminili non coincide con quella delle autrici. Con la poesia fu ancora più complicato. Avevo poco meno trent’anni quando cominciai a pensare a un’antologia di poesia femminile italiana dalle origini ai giorni nostri. Un’idea ispirata dal movimento femminista e che entusiasmò Dacia Maraini. L’accademia non c’entrava niente, forse per questo trovare un editore fu difficilissimo. Einaudi che pure riteneva che una simile antologia avrebbe venduto molto la rifiutò, obiettando che confondevamo le lamentele di Compiuta Donzella e altre come lei con la realtà. Secondo loro era pura letteratura, fiction, imitazione di temi della poesia maschile. Alla fine fummo costrette a ripiegare sul secondo Novecento. E anche in quel caso non fu un sentiero agevole. Elsa Morante ci negò, pena una denuncia, di pubblicare le sue poesie. Allora ignoravo che si adirasse contro chiunque la considerasse un’autrice. Era un Autore e basta, termine secondo lei neutro. Oggi capisco le preoccupazioni della sua generazione e i timori di venir rinchiuse in una gabbia, una sorta di ghetto discriminatorio. Il problema non è affatto superato, io credo. E’ una questione di qualità e non di quantità. A volte penso che essere donna e scrivere, senza doversi immaginare come una creatura neutra che deve però definirsi al maschile per essere accreditata come un vero poeta, sarebbe una vera liberazione, un’istanza di libertà. Ma purtroppo ancora un’utopia.
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