(foto di Dino Ignani) (vietata la copia e la riproduzione)
Antonella Anedda. Historiae – Giuilio Einaudi Editore
(Nota di Renato Fiorito)
La poesia di Antonella Anedda è poesia che scorre
carsica, poesia d’isola, di luoghi appartati avvolti da secoli di silenzio e di
luce. Mandrie di nubi, sciami d’api, anemoni di mare che crescono tra le pagine
di “Historiae”, tanto per rubare alla poetessa le sue parole. Ma anche, il
mistero, l’orrido, le tragedie antichissime che affiorano come ombre dal suolo,
dai ruderi del passato, e la sua capacità di legare cose lontane, disegnare
nessi, fare rivivere storie. E poi la malattia, il viso di una giovane infermiera
che traluce nel globo della flebo e l’ospedale che sembra una nave nel porto
dopo la traversata. Ma qual è la traversata che ha compiuto? Rispondono silenziosamente
le figure che si intravedono oltre le finestre illuminate dell’ospedale e che sanno
del dolore, della speranza e della malattia che rende disorientante il
viaggio e incerto l’approdo. Nel cortile un albero di tasso affonda le sue radici
nella terra mentre su in alto, nel cielo d’autunno, corre il carro dell’Auriga, a
forma di pentagono, che tiene con le briglie le stelle.
Sono così dense le immagini, così chiare e luminose le
poesie, che non occorre commentarle, basta ascoltarle in silenzio, come si fa a
un concerto, e abbandonarsi alla loro suggestione: un notturno, un canto, l’umano
dolore che si dilata per l’universo. Il quotidiano si ammanta di malinconia, di
stupore, di magia, con lo sguardo rivolto al cielo ma con i piedi saldamente piantati
nella terra dei padri. Le cose, le nuvole, la terra, vibrano,
hanno un’anima e ci dicono che non siamo soli, che tutto ha un’eco dentro di noi.
La scelta accurata delle aggettivazioni, immaginifiche
e impreviste, rimandano a un non detto e rendono possibile il salto, forse il
volo. In fondo questo della poesia è l’unico percorso possibile per prendere coscienza
della parte universale che dimora in noi e liberare il pensiero.
In epigrafe fa capolino una variegata schiera di
poeti: Osip Mandel’stam, Tacito, Vivian Lamarque, Charles Baudelaire, Dante,
Wystan Hugh Auden, che, simili a numi tutelari, sono chiamati a vegliare sulla
poesia di Antonella Anedda. Suggestioni e tematiche mi fanno pensare anche alla
migliore poesia francese contemporanea, per la liricità del verso, l’ansia di
assoluto, i riferimenti alla natura, in un gioco di prossimità e lontananza. Una
poesia pandeistica, dunque, dove il quotidiano si mescola all’eterno e ne
diventa proiezione, inaspettato sussulto; il giardino di casa che si collega agevolmente
all’infinito e diventa golfo mistico dello spettacolo di un cielo autunnale attraversato
da sciami di stelle.
“…Di colpo allora quella tregua consola/ anche noi
scettici, come quando un inverno/ affacciandoci per caso ad un balcone abbiamo
visto/ lo sciame di Tauridi fendere a sorpresa il cielo buio.” (Tauridi pag,11).
Con grande sapienza Anedda costruisce la sua poetica,
la estrae dal fondo del suo essere poetico, restituendo alle parole un suono
non contaminato dall’uso, e al verso un sentimento armonico di comunanza con
l’universo, la natura, il dolore di vivere. Il suo linguaggio non è il nostro,
ma ne utilizza le sonorità, amplificandole e, per la breve durata di una poesia,
ci dona l’impressione di riconciliarci con un dio che non conoscevamo, diffuso
nel creato e con cui, senza saperlo, eravamo in contatto.
Poesia, dunque, che
rimanda al cielo, ma che parte dalla terra, dal fango, dalle radici, dalla
quotidianità, per compiere un tragitto che ci lega all’universo, alle
costellazioni, allo scontrarsi di comete lontane. Le stagioni diventano così vive
e vibranti e parlano di un tempo che appartiene anche a noi se ci abbandoniamo al
suo mistero, allo scorrere del fiume che ne è la metafora e che raccoglie in sé
contemporaneamente sorgente e foce, fluire e restare.
Nella poesia “Quanti“ (pag.23)
in proposito si legge: “Dicono i fisici che la morte/ sia presente da sempre
in uno spazio esatto/ posata accanto alla nascita come un lume o una mela/”.
L’elemento dell’acqua è, peraltro sovente richiamato,
con il suo carico simbolico di lavacro, di tempo che scorre, di aspirazione a una
comunione più compiuta. Scrive, ad
esempio, la poetessa in Osservazione2: “L’acqua e la terra e tutte le misure
portate a corruzione/ la vita bellissima e crudele/… Fuori appena intravisto,
un albero di tasso spinge comunque nel prato le radici. Cerca l’acqua
nascosta.”, e in “Alghe e anemoni di mare”: “…la testa che immergiamo
nell’acqua è la sola promessa/ di una vita ulteriore, nel grigio che sfuma ogni
pensiero./… vieni acqua buia intrecciami di ortica/ la crescita lenta è già
finita.”
Sullo stesso tema Osip
Mandel’stam, richiamato in epigrafe dalla poetessa, aveva scritto: “Una
stella si discioglie come sale nella botte,/ più buia è l'acqua gelida,/ più
pura la morte, più salata la sventura,/ ed è più vera e più terribile la
terra.” (In cortile mi lavavo), e Yves Bonnefoy, importante poeta francese contemporaneo,
a cui pure mi viene di pensare, per avere egli sviluppato il tema del significato
dell’esistenza, della natura e della morte, scriveva: “Noi agitiamo quest’acqua. In essa le nostre
mani si cercano,/ Talvolta si sfiorano, forme spezzate./ Più in basso, è una
corrente, è qualcosa d’invisibile,/ Altri alberi, altre luci, altri sogni.” (Le
nostre mani nell’acqua)
Al centro del libro vi è la
dimensione personale, esperienziale, concreta di un vissuto che però non si
ripiega su se stesso, non diventa compiacimento crepuscolare ma comprende,
analizza, reagisce, “Davanti alla
dismisura delle cose cerco di provvedere,/ scendo nel loro baratro. Ogni volta
riemergo.../ (Geometrie).
Tuttavia, lentamente, si posa sulle pagine, leggero e struggente. un senso irrimediabile di perdita, la nostalgia della figura della madre, il ricordo del suo lento abbandonarsi alla morte che disegna pagine di grande densità emotiva. Ma anche si evidenzia un profondo senso di empatia verso il popolo disarmato degli esuli, dei sopravvissuti, degli ultimi, e il dramma della guerra, la tragedia dei morti affogati, la morte scandalosa che si incunea nel quotidiano con la voce asettica della radio e tramuta in polvere la vita, accentuando il nostro senso di precarietà e di pericolo.
Tuttavia, lentamente, si posa sulle pagine, leggero e struggente. un senso irrimediabile di perdita, la nostalgia della figura della madre, il ricordo del suo lento abbandonarsi alla morte che disegna pagine di grande densità emotiva. Ma anche si evidenzia un profondo senso di empatia verso il popolo disarmato degli esuli, dei sopravvissuti, degli ultimi, e il dramma della guerra, la tragedia dei morti affogati, la morte scandalosa che si incunea nel quotidiano con la voce asettica della radio e tramuta in polvere la vita, accentuando il nostro senso di precarietà e di pericolo.
“Oggi penso
ai due dei tanti morti affogati/ a pochi metri da queste coste soleggiate/
trovati sotto lo scafo, stretti, abbracciati” (Esilii pag.35)
“La storia
moltiplica i suoi spettri, li affolla/ ai confini degli imperi nell’era di
ferro che ci irradia.” (Confini pag. 41)
Insomma
un gran bel libro, costruito con acume, ricco di spunti, di bagliori, di raffinata
cura per la sonorità delle parole e la loro verità.
Osservazione 2
L’acqua e la terra e tutte le misure
portate a corruzione
la vita bellissima e crudele
e il viso di una giovane infermiera
che traluce nel globo della flebo
davvero come perla su una fronte chiara.
Fuori appena intravisto,
un albero di tasso
spinge comunque nel prato le radici.
Cerca l’acqua
nascosta.. Non so l'ora precisa,
ma è inverno, pomeriggio,
si accendono i lampioni nei cortili.
Sul ponte che unisce i reparti più lontani
altri visi, altri corpi sfavillano tra i vetri
in un moto sospeso che ci acquieta
come una nave in porto dopo la traversata
Tauridi
Quando fin dal mattino ci si arrende al caldo
aspettando la notte
con le pompe che lavano le strade
e l'asfalto fuma di vapore,
quando la vita non è un intreccio
ma un balbettio di digressioni
affiora dal torpore l'immagine di un'acqua
intravista in campagna tra le felci e le ortiche,
tesa come un lenzuolo con mollette di rami
e un catino di sassi verde-gelo.
Di colpo allora quella tregua consola
anche noi scettici, come quando un inverno
affacciandosi per caso ad un balcone abbiamo visto
lo sciame delle Tauridi fendere a sorpresa il cielo buio.
(foto di Dino Ignani) (vietata la copia e la riproduzione)
Notizie biografiche
Antonella Anedda Angioy è una delle poetesse più rappresentative degli ultimi anni. Nata a Roma da una famiglia di origine sardo-corsa si è laureata in storia dell'arte moderna, studiando tra Roma (Università La Sapienza), Venezia (Fondazione Cini), dove ha ottenuto la borsa di studio di Alta cultura, e Oxford, dove ha conseguito il titolo di Doctor of Philosophy. Ha insegnato all'Università di Siena e presso il Master di Anglistica dell´Università La Sapienza di Roma. Attualmente è docente presso l’Università della Svizzera italiana di Lugano.
Il suo libro di esordio Residenze invernali (Crocetti editore) del 1992 ottenne il premio Sinisgalli Opera Prima, premio Diego Valeri, Successivamente ha pubblicato le sillogi: Notti di pace occidentale (Donzelli, Roma 1999; premio Montale nel 2000), Il catalogo della gioia (Donzelli, Roma 2003) e Dal balcone del corpo (Mondadori, Milano 2007), vincitore dei premi Dedalus, Dessì e Napoli). Nel 2012 è uscita per Mondadori la raccolta Salva con nome, per la quale le è stato conferito il premio Viareggio- Rèpaci.
L'antologia Archipelago, tradotta in inglese per Bloodaxe Books dal poeta Jamie McKendrick, ha vinto il John Florio Prize per la traduzione nel 2016. Il volume è stato oggetto di saggi da parte di italianisti come Peter Hainsworth e Marina Warner sul TLS e di David Cooke sul London Magazine.
Oltre all'inglese l'opera di Antonella Anedda è tradotta in numerose lingue. Due i volumi tradotti in spagnolo: Residencias invernales (Igitur, 2005) con testo introduttivo di Amelia Rosselli. e Noches de paz occidental (Fugger Poesìa, 2001). Nel 2008 è stato pubblicato per l'Escampette, Nuits de paix occidentale, suivi de La lumière des choses, tradotto da Jean-Baptiste Para. La traduzione tedesca di Dal balcone del corpo (Vom Erker des Körpers, traduzione di Annette Kopetzi) è uscita nel 2010 per Litteraturverlag Ronald Hoffmann.
Nel settembre 2019 le è stato conferito il dottorato honoris causa dall’Università Sorbonne IV Paris.
Tra i saggi ricordiamo: Cosa sono gli anni (Fazi, Roma 1997); La luce delle cose. Immagini e parole nella notte (Feltrinelli, Milano 2000); La lingua disadorna (L’Obliquo, Brescia 2001), Tre stazioni (LietoColle, Faloppio 2003), Come solitudine (2003); La vita dei dettagli (Feltrinelli, Milano 2009); Scomporre quadri, immaginare mondi (Donzelli Editore, Roma 2009) e Isolatria. Viaggio nell'arcipelago della Maddalena (Laterza, Roma-Bari, 2013).
Antonella Anedda svolge anche una intensa attività di traduttrice di poeti classici e moderni: ha curato in particolare un’antologia di poesie e di prose di Philippe Jaccottet, Appunti per una semina (Fondazione Piazzolla, Roma 1994) e, sempre di Jaccottet, La parola Russia (Donzelli, Roma 2004); Le sue traduzioni sono raccolte nel volume Nomi distanti (Empirìa, Roma 1998).
Ha collaborato con varie riviste e giornali tra cui "Poesia", "Nuovi Argomenti", "Linea d’ombra", "Il Manifesto".
Bellissima e illuminante recensione per la poesia di Antonella Anedda che sa farci scendere negli abissi e quindi uscire a riveder le stelle. Grazie.
RispondiEliminaDante Maffia
Pecato che un traduttore di Anedda non possa usare la foto de Ignani nel suo blog
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