Raffaele
Castelli Cornacchia - “La zona Rossa”
Ed. Transeuropa 2020
(Nota di Renato Fiorito)
(Nota di Renato Fiorito)
Si dice che dopo 7 anni i matrimoni si rompono o si stabilizzano. Sono passati giusto sette anni dal sorprendente ultimo libro di Raffaele Castelli Cornacchia, “L’alfabeto della crisi”, nel quale il poeta aveva dato voce a tematiche che, in genere, sono lasciate fuori dalla prassi poetica perché attinenti all’economia, al lavoro, alla politica. Ora Raffaele, dopo avere maturato riflessioni e esperienze di vita, è tornato con questa nuova silloge a dirci che il suo matrimonio con la poesia durerà ancora a lungo.
L’evento
che ha spinto Raffaele a impegnarsi nel nuovo lavoro è stato un avvenimento doloroso:
la morte della madre dovuta alla pandemia, e il coronavirus che si insinua e
minaccia anche la sua vita. Il libro è il resoconto di prima mano dei pensieri
che attraversano la mente di un ammalato, resoconto che però diventa subito poesia,
sconcerto, ribellione; libro inquieto, dunque, libro caos, caos di pensiero e
di molte verità tirate fuori dal pantano assurdo della vita nel quale
l’esistenza diventa fragile, assediata dalla attesa, dalla paura e dal
rimpianto di non averla assaporata sino in fondo:
“Era
meglio esser partiti prima/ con i suoi suoni, e il sentir bene/ il piacere, e
il tempo che passa/ con tutta la forza, della terra.” (pag.11)
E
poi c’è l’isolamento, il pericolo di contagiare, la mortificazione di coloro a
cui viene inibito ogni contatto:
“Quindi
non toccarmi. Non respirarmi./ Sono l’avvento del tuo sapere.// Sono il tuo
intelletto scemo/ la sepsi della connessione certa/ il guasto nella tunica
griffata/ la contaminazione del prodotto/ la corruzione nella rotazione/
l’infezione ronzante d’un insetto/.” (pag. 13)
La
realtà dolorosa diventa allora come la sala d’aspetto di un sogno a cui si
chiede solo una via di fuga:
“Un
sogno comodo, da veri stronzi/ come son poeti e sognatori/ che in sogno non
stanno mai fermi/ e dev’essere colpa del sapere/ che non sai che accade a
muoversi/ ma sai che succede a stare fermi/ non cambia nulla, si chiama incubo”
(pag. 14)
La
malattia ruba la realtà e la sostituisce con immagini, deliri, rimpianti e un
senso di spossatezza che annulla la volontà di combattere:
“La
spossatezza, è voglia di pace/ di prendersi cura dell’ottimismo/ di rivangare i
corpi percorsi/ di, starsene senza fiato sott’acqua.” (pag. 16)
Ma
non manca l’ironia, il sarcasmo contro i riti, le parole inutili, la retorica
dei media e la realtà che cambia ognuno, nella paura nella speranza che l’emergenza
possa presto finire:
“Niente
più puttane tanti notai/ e più farmacisti che operai/ e cerberi a custodire
cosa/ e, quel bislacco senso del disuso/ a muffire ironia, e sorte.” (pag. 17)
Il verso procede così imprevedibile, senza mai
accartocciarsi sul proprio dolore, sulla malattia, diventando fuga
semmai, lotta semmai, un modo per tergiversare, reagire, raccontare fatti e
incongruenze, e inventare parole, assonanze, rimandando ad altro, al non detto
e chiedendo al lettore di farsi parte attiva, interpretare, riconoscersi o
dissentire, nonostante la fatica della salita lo freni, i voli logici, le
impreviste figure lo lascino in parte incerto, in parte affascinato.
Una
specie di disordine descrittivo che richiama la confusione della mente impaurita,
sconvolta nelle sue abitudini dal capovolgimento della realtà:
“Non
c’è ordine nella bellezza, e /t’illudi d’avere delle idee/ e le digiti sopra un
foglio, ma/ il tuo pensare non è un germoglio/ si rivolta sterile su se stesso/
costruisci effetti per la gente/ e il tuo tratto non ha contorno” (pag.20)
Emerge
la critica sociale, l’invettiva, la ribellione ai luoghi comuni, alla bontà
tanto al kilo della società in declino:
“Non
è tempo del senso dell’inizio/ di sacrifici su ordinazione/ di solidarietà
senza le mani/ di schifarsi dei soldi da spendere/ o piuttosto di quelli da
prendere.”(pag 23)
“Per
imbrogliare: per questo si nasce./ Sasso carta perde, forbice vince./ Tutto
qui. Perdi, ti strappi il petto/ ti squarci il petto pure se vinci…” (pag.24)
“Rivoluzione,
eiaculazione/ secoli di cimiteri perfetti/ lapidi di giudizi. Pregiudizi./
Nulla più che spazio fra le costole.” (Pag.26)
Entra
nei versi quello che non funziona nella società: le inquietudini, lo scontento,
il rifiuto delle regole, delle consuetudini letterarie per dare spazio e
libertà a verità confuse ma vitali:
“Raccogli
lo sterco che ti circonda/ senza che dicano hai scritto bene/ senza ironie
sulla metrica/ sul contagio delle abitudini/ o sul modo di guidare un’auto”
(pag.22)
“Meglio,
una biro senza inchiostro/ mi rovisto nella testa i grilli/ polpi e fragole, un
po’ di bourbon/ l’ultima cosa che invochereste/ un tonno una tinca, uno squalo/
nell’impresa, di saper ritornare.” (Pag. 29)
Critica
sociale e politica, dunque, questa “Zona rossa” ma senza cattedra, senza
maestri, critica che ingloba il poeta stesso, la sua vita, le sue scelte, e le
scelte della gente intorno impastate di illusioni e di cinica indifferenza:
“La
piccola Ife è in seconda/ gli occhi blu come uno zaffiro/ sezione B, viene
dall’Etiopia/ il suo nome vuol dire amore/ e a casa celebrano di maggio/ il
cinque, la loro Liberazione/ l’occupazione degli italiani/ ma non le interessa
del fascismo/ tutti sono molto buoni con lei.// Fosse davvero l’aria a mancare/
anche la Libertà avrebbe la sua/ di terapia intensiva ma no/ non è una libertà
generica/ a far difetto, è il carattere sia dell’aria che della libertà…” (Pag.58)
“Ma,
che gusti avrete mai voi oggi/ di nuovo arruolati alla folla/ di nuovo pronti
al passo incerto/ a tentare un’esistenza viva./ Non ce li renderanno
nuovamente/ i nostri immacolati sospiri/ senza smania stavolta, di cambiare.” (Pag
55)
“Così,
rappresentati degnamente/ da giullari servi e mascherine” crepammo, dimentichi
dei mandanti.”(pag 56)
Poi,
sul finire, il registro stilistico si modifica, il verso diventa limpido,
calmo, pacificato, come per un approdo sperato, dove riposare il cuore e fare
emergere ciò che conta davvero: il dolore, la perdita della madre, la malattia,
il rimpianto.
“Così
in quei giorni tutti i respiri si riunivano/ in collane di labbra che sono
diventate parole/ pudiche sincerità, poesie, e cambiamento.”(pag 59)
Il
figlio ribelle, il figlio poeta resta solo col rimpianto di ciò che ha perso e
con una battaglia decisiva da combattere, perché sa che questo è il momento in
cui bisogna dare verità e forza alla vita, alle parole, al cambiamento.
“Solo
passi di ricordi, ricordo/ la cotoletta non t’è mai piaciuta/ nel vino mi
mettevi lo zucchero/ eri fatta così, poco realista/ e ora ci separiamo
davvero./ Il mio cuore s’è rappacificato./ Vado a pagare il mio conto.” (Pag.
54)
“Prima
d’allora avevo sempre detestato la routine/ le rassicuranti liturgie della
quotidianità/ ma la lotta per la sopravvivenza richiede ordine/ così in quei
giorni presi ad avere abitudini. … //Così in quei giorni tutti i respiri si
riunivano/ in collane di labbra che sono diventate parole/ pudiche sincerità,
poesie, e cambiamento.” (pag.59)
Un
libro da leggere dunque, non usuale, non letterario, che raccoglie dalla vita
piuttosto che da altri libri nel quale Raffaele Castelli Cornacchia si conferma
ottimo e originale poeta.
Addio Beni
Così alla
buona e di passaggio
mi fermo a pranzo nell’osteria.
Nell’ultimo
posto dove ricordo
di averti vista, credo, felice.
Era proprio
di strada, al ritorno
verso la città che non rivedrai.
Sempre più
lento, fino alla fine
ho atteso il
tuo fiato finire.
La bara mi
sa di quelle standard
di certo un po’ troppo lunga per te
con quella testa un
poco di sbieco
il viso severo di una madre
la luna storta fino alla fine.
Da vent’anni non ti
vedevo così
dopo tutto il tempo segreta
nessuno ti ha vista così
bella.
Solo passi
di ricordi,
ricordo la cotoletta non t’è mai piaciuta
nel vino mi mettevi lo
zucchero
eri fatta così, poco realista
e ora ci separiamo
davvero.
Il mio cuore s’è
rappacificato.
Vado a pagare il mio conto.
Collane di labbra
Prima
d’allora avevo sempre detestato la routine
le rassicuranti liturgie della quotidianità
ma la lotta per la
sopravvivenza richiede ordine
così in quei giorni presi ad avere abitudini.
La pace e il frigorifero ronzavano sicuri
la carne in freezer e
le sirene sempre più vicine
a fendere l’aria del temporale aggirando scogli.
Spalancavo
le finestre ad arieggiare i cuscini
l’abbondante colazione e la merenda coi
biscotti
e la tisana serale intercalavano i pasti
d’una piccola casa di
cura cucitami addosso.
Nel farsi
pensiero d’ogni cosa nelle tasche briciole
frammenti di cibo senza fame e notti
senza sonno
e gli anni a manciate
avvolgevano le scapole.
Dovevo
riprendere il peso e le forze smarrite
impedire che venissero a saccheggiarmi
il fiato
e lasciare che la natura umana del mio corpo
facesse fino in fondo il
suo imprevisto corso.
Così in quei giorni tutti i respiri si riunivano
in collane di
labbra che sono diventate parole
pudiche sincerità, poesie, e cambiamento.
Grazie Renato per queste tue parole! Se c’è cuore nella poesia, in questo caso ce n’è altrettanto nella tua recensione. Con osservazioni che colgono con sensibilità alcuni aspetti importanti di questo mio lavoro, punti di vista che ho voluto offrire al lettore, ma che anche ne sollecitano altri che sorprendono anche me. Risultato di una passione e di un’esperienza di cui ti sono ancora una volta grato. Raffaele
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