La polvere e l'acqua
In tempi in cui sperimentalismi
autoreferenziali hanno condotto la poesia ad una devastante crisi di
comunicazione e di interpretazione della realtà, Mario De Santis rappresenta
con lucidità e realismo il dramma del proprio tempo e, forse, di ogni tempo,
con un’analisi cruda, ma non cupa, del deperimento sociale che restituisce alla
poesia una funzione di magistero e di denuncia.
E’ la polvere
la protagonista di questa raccolta di poesie. Al di là del tropo, insito nell’utilizzo della
parola, che allude all’esito estremo di ogni vicenda umana, sembra polvere vera
quella che si respira nei suoi versi, e non solo quella metaforica che passa
nella clessidra del tempo.
Già questa intuizione basterebbe a
immergere il lettore nel flusso profondo della storia e a fare uscire la poesia
dal ghetto dei minimalismi e dei linguaggi criptici ripiegati su se stessi. Ma
in realtà c’è molto di più: c’è capacità di fare poesia, ispirazione genuina e
uno sguardo partecipe alla fragilità delle cose, come un invito ad averne
cura, non tanto per salvare loro, ma per salvare noi
stessi da un decadimento senza riscatto.
Mario è un ottimo giornalista e, dunque,
l’irruzione della forma narrativa nella poesia è quasi obbligata, ma questo non
porta all’indebolimento della forma poetica, anzi la rende più struggente e
incisiva. Ben presente è infatti nel suo lavoro l’eco della lezione della
grande poesia del novecento da Pavesi, a Pasolini, da Sereni e Celan. Occultati
da elementi ritmici sbilanciati si
ritrovano spesso perfetti endecasillabi e, specie nelle poesie migliori,
un’armonia quasi pascoliana di profonda bellezza.
In “sogno
è città” egli infatti scrive: “Dove ci sono ancora case vuote, lì finisce Roma./
Si lacera di strade senza targa, dove la notte/ è solo mani di rissa e crudeltà
di cani”, in cui l’incipit (Dove ci sono ancora case vuote…), nel suo ritmo crepuscolare,
non è meno classico della pascoliana “Dov’era
l’ombra or sé la quercia spande…” e il verso successivo (…si lacera di
strade senza targa…”) ha l'armonia di “morta, non più coi turbini
tenzona”.
È questa struttura di elegante rigore che permette
all’autore di immergersi nella desolazione della periferia senza mutuarne la
disperazione. Si avverte invece la premura dello sguardo verso uomini e paesaggi,
percepiti come attori della medesima tragedia. Le case, la terra, le strade diventano
partecipi della vita e della fragilità dei loro abitanti, consumandosi e perdendosi con loro.
Ad
esempio, nella poesia “dove, madre?” si
legge:
“L’odore della terra che
riposa dai lutti
è la sera, e i respiri,
l’abbandono. Segnali
marcano la gola, cane
senza coda la memoria
mi viene incontro
sconosciuta… “
“Ovunque,
mentre vanno chiusi
dal
confine della notte, si consuma
e si
ripara il sonno irregolare
dei
muratori, che tornando a casa in treno a sera
lasciano case altrui per loro case"
dove il poeta scende dentro il paesaggio,
partecipa della sua storia e della fatica di vivere degli uomini, che abitano
silenziosi un tempo senza gloria.
Questo senso di marginalità diventa
a volte sentimento struggente di esilio dalla luce e, insieme, consapevolezza della
sua fugacità:
"tutto
quello che non siamo è lo screzio di luce
nell’oscurità,
dopo un pallido tramonto"
Altre volte, come nella poesia
“Dove mai”, lo sguardo del poeta si apre, abbandonando il treno, su cui metaforicamente
viaggia, e si spinge oltre la pioggia, fino al porto, fino al mare:
“Qui l’onda è la rivolta dell’acqua che colora
ritorni
guardo l’aria lavata dal
finestrino del treno,
guardo anche il mare di
smeriglio, un talismano,
le navi a peso morto,
la prossima salperà
solo domani;...”
con risonanze che mi riportano
alla mente alcuni versi di Nazim Hikmet che, davanti al mare di Varna,
vagheggia nuove partenze:
Una barca passa davanti
a Varna
”Ohilà, figli d’argento
del Mar Nero!”
una barca scivola sul bosforo.
Nazim dolcemente carezza
la barca
e si brucia le mani.
Il libro è acquistabile nelle librerie Feltrinelli e, on line cliccando sul seguente link:
Sogno
è città, da un disegno di Jan Fabre
Dove
ci sono ancora case vuote, li finisce Roma
si lacera di strade senza targa, dove la notte
è solo mani di rissa e crudeltà di cani.
Guardo lasciando che nel buio
cadano gocce rumorose. L'acqua
che non ha spessore, che non è diretta,
porta il suo ritmo verso il niente,
diviene danza ossessiva di pianeti.
Nessuno sembra sveglio,qui, o sono tutti oltre frontiera
lungo le scale e i corridoi cammino respirando
tornando a casa a bocca aperta, io solo testimone.
Qui la vittoria o la sconfitta sono sconosciute
resta la ferocia delle cose. Non riconosco nulla
dalla finestra, tutto è uguale, è la polvere che vaga
dunque non c'è nient'altro dietro le nostre
vite: se non avessi l'ombra che si disegna sola,
quella di un cane a cui somiglio, sarei davvero
anch'io una cosa, abbandonata tra gli agguati,
di nuovo nel deserto della strada immobile
nel giorno identico a ieri
che arriva tardi, che non si sbaglia mai.
si lacera di strade senza targa, dove la notte
è solo mani di rissa e crudeltà di cani.
Guardo lasciando che nel buio
cadano gocce rumorose. L'acqua
che non ha spessore, che non è diretta,
porta il suo ritmo verso il niente,
diviene danza ossessiva di pianeti.
Nessuno sembra sveglio,qui, o sono tutti oltre frontiera
lungo le scale e i corridoi cammino respirando
tornando a casa a bocca aperta, io solo testimone.
Qui la vittoria o la sconfitta sono sconosciute
resta la ferocia delle cose. Non riconosco nulla
dalla finestra, tutto è uguale, è la polvere che vaga
dunque non c'è nient'altro dietro le nostre
vite: se non avessi l'ombra che si disegna sola,
quella di un cane a cui somiglio, sarei davvero
anch'io una cosa, abbandonata tra gli agguati,
di nuovo nel deserto della strada immobile
nel giorno identico a ieri
che arriva tardi, che non si sbaglia mai.
Dove mai
Qui l'onda è la rivolta dell'acqua che colora ritorni
guardo l'aria lavata dal finestrino del treno,
guardo anche il mare di smeriglio, un talismano,
le navi a peso morto, la prossima che salperà
solo domani; un giorno immobile, domani
se il cielo che vigilo è ferito
se scivolo col treno dai decumani, nel mezzogiorno
dei cantieri vuoti, del loro assurdo silenzioso.
E' qui ch'è mia la polvere
che la carne degli anni passati mi fa da patria,
da sangue e da vento, mi rende prigioniero,
mi rende assente dai pensieri.
E' qui che mi vedo con un bambino a gioco,
usa la spada sulla spiaggia, fa naufragato e folle
di chissà che guerra, ma di certo combattuta.
Allora guardo l'ora sottile del pomeriggio,
e sa di ritorno alla vita, che non concede,
e non ha nulla, né visioni né le storie perfette
o dolore: tutto se ne sta nella minaccia infantile e
guerriera, nei colpi dati al ferro: e nei saluti
di viaggiatori in treno che diventano per lui
le mani tese in alto di chi è arreso, finalmente.
Anche per me quell'ora è in quello che si vede.
Ostia Lido - Roma
Novembre nell'acqua
sopra noi, vicini
corre in mezzo a fiori scuri,
su tombe e contro-tempo,
se un'epoca è esaurita;
andiamo lungo piste, marane, campi di battaglia
in ogni spiazzo di periferia
i miei confini da vagabondo ci disegnano una patria.
Da tempo si combatte
con la pura violenza, senza eserciti né armi
è la guerra dell'ultimo minuto
la guerra dei trent'anni in un'assenza, piena:
in quella solo fittizie le invasioni,
vere le vittime soltanto, verissimi gli inermi.
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