Silvia Rosa è nata a Torino, dove vive e insegna. Le piace girare per le strade della città, visitare mostre e musei, fermarsi a volte nei bar storici del centro, al Caffè Fiorio o al Bar Platti, per un dolce
o una cioccolata calda.
Laureata in Scienze dell'Educazione, cura per NiedernGasse la rubrica di costume e attualità "L'asterisco e la Margherita", firmandosi con il nome di Margherita M. Fa anche parte della redazione dell'Annuario di Poesia Argo, e del blog "Poesia del Nostro tempo", dove cura le rubriche "Confine donna: poesie e storie d'emigrazione" e "Scaffale poesia: editori a confronto". Collabora con la testata giornalistica "Midnight Magazine", curando la rubrica "Fuori banco: cronache dalla scuola degli ultimi".
È tra le ideatrici del progetto “Medicamenta-lingua di donna e altre scritture”, in cui propone una serie di letture, eventi e
laboratori rivolti a donne italiane e straniere, in un’ottica psicopedagogica e
di genere. Collabora con il blog Margutte.Laureata in Scienze dell'Educazione, cura per NiedernGasse la rubrica di costume e attualità "L'asterisco e la Margherita", firmandosi con il nome di Margherita M. Fa anche parte della redazione dell'Annuario di Poesia Argo, e del blog "Poesia del Nostro tempo", dove cura le rubriche "Confine donna: poesie e storie d'emigrazione" e "Scaffale poesia: editori a confronto". Collabora con la testata giornalistica "Midnight Magazine", curando la rubrica "Fuori banco: cronache dalla scuola degli ultimi".
Ama l’Argentina e per questo ha scritto nel 2013 un saggio di storia contemporanea "Italiane d'Argentina. Storia e memorie di un secolo d'emigrazione al femminile (1860-1960)" - Ananke Edizioni, e ha dato vita al progetto "Italia Argentina ida y vuelta. Incontri poetici" pubblicato a puntate sulla rivista internazionale di poesia Iris News (2015), su Versante Ripido (2016/17) e infine in ebook, scaricabile gratuitamente. Organizza eventi letterari e mostre di arti visive e presiede l'Associazione Culturale ART 10100.
Tra le raccolte di poesie, ricordiamo: Genealogia imperfetta (La Vita Felice); SoloMinuscolaScrittura (con prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti, La Vita Felice), Di sole voci (LietoColle Editore);
il libro è acquistabile su tutte le piattaforme on-line
Dico quello che sento: Silvia Rosa è una poetessa vera, una di quelle che
non si lasciano leggere con indifferenza. Questa sua raccolta, Tempo di
riserva, ha dentro il piacere sensuale di chi assapora un buon vino,
scambia una carezza, guarda negli occhi l’amato; ha la struggente
consapevolezza del tempo, il legame fortissimo con la terra, l’ascolto
assorto delle stagioni. Ti prende per mano con delicatezza e ti conduce in una
terra gentile dove le immagini, le emozioni, le paure incontrano le tue e
parlano la stessa lingua.
William S. Borruounghs, poeta della Beat
Generetion, scrisse che bisogna essere sempre consapevoli che ogni parola evoca
un’immagine. Questo è particolarmente vero nella poesia di Silvia
Rosa: i suoi versi hanno forme, luci, colori, radicati profondamente
nell'anima; aprono varchi su una realtà trasfigurata, come finestra spalancata
sui paesaggi d’infanzia, sulle persone amate, sul tempo trascorso, sicché a
leggerli tutti si finisce col farsi trascinare dal loro senso di armonia, dalla
capacità di commuovere e ricordare.“…le rose fioriscono ancora/ nel giardino dei tuoi abbracci/ e restare o andarsene non vale/ il tempo inesatto non basta/ a fare notte silenziosa e tregua…/ (da “Quando torni” pag.40)
Un'affascinante girandola di metafore, di
luci che si accendono, di soprassalti e ritorni, costringe il lettore alla
lentezza, a tornare indietro per estrarre dalle parole il loro succo misterioso
e immaginifico e riflettere su se stesso e la vita, e stendere su di essa
il conforto lieve delle parole.
“La margherita mi sboccia in grembo/ è un piccolo bianco insetto/
tutto petali e memorie,/ vorace e crudele come la vita/ quando alza la voce./
(da “La margherita” pag.41)
“Tempo di riserva” è dunque questo.
Suddiviso in quattro capitoli richiama le stagioni della vita, che però, curiosamente,
non iniziano con la primavera, ma con l’inverno. Se ci si domanda il perché di
quest'ordine, una convincente spiegazione può trarsi dalla prefazione di
Gabriella Montanari che, citando in esergo Rudolf Steiner, dice che sentirsi partecipi
della natura non vuol dire essere in armonia con essa solo nel momento del
germogliare, del crescere, del fiorire, ma anche nel momento del decadere e
dell’appassire, poiché nessuna primavera è possibile se non è
preparata dall’inverno, se, cioè, non c'è la morte a dare spazio
alla vita.
Questa considerazione, suggerita
dall’andamento temporale del libro, fa pensare che la raccolta abbia un senso
circolare, che cioè le varie stagioni, non si perdano nel fluire eracliteo del
tempo, ma trovino anzi nel suo trascorrere il loro più profondo significato.
D'altra parte se gli eventi si riducessero
alla sola materialità, il loro senso andrebbe presto perso; ciò che li rende
unici e preziosi è invece la loro eco nel sentire presente, l'intreccio delle
nostalgie col pulsare quotidiano della vita.
Nulla dunque passa mai davvero. Per ogni emozione lo scrigno della vita
predispone un momento di rielaborazione, di ripensamento, di trasfigurazione,
cioè un “tempo di riserva”, che trasfigura le cose e ce le restituisce con
accresciuta bellezza.
In sogno la casa di mia nonna è identica/
in ogni dettaglio alla mia, il tempo è/ quello immobile dell’infanzia, quasi
eterno, è estate, un cono di luce segna / la porzione di spazio che in gioco
abito./ (da "Bambina di carta" pag.48)
Il “Tempo di riserva” di cui Silvia
Rosa ci parla è proprio questo: copre tutto il tempo, diventa
il granaio con cui sfamare la fame d'amore, insegna che la parte preziosa della
vita non sta nelle cose che facciamo ma nel sentimento con cui le vestiamo. (Renato Fiorito)
CHE SPERPERO QUESTA QUOTIDIANITÀ
NATURA MORTA
io non volevo questa bestia
io non la voglio questa attesa
e ti appartiene, nonostante tutto.
Che sperpero questa quotidianità
svuotata di tenerezze, nudo
sasso che ci rimbalza contro, sguardo
d’orizzonte addomesticato asciutto
(e io che costruivo
geometrie golose di parole
per rendere meno scialbo
il battito meccanico
della lingua contro i denti,
al modo dei bambini
provavo il gioco ripetuto
‒ serio ‒ di stringersi
ancora e sempre come se
non ci fosse un seguito)
che sperpero la morte bianca muta
da un giorno all’altro identico di piccole
lucciole di felicità intermittenti, schiacciate
al buio di un tempo così distratto che
persino la banalità del niente
avrebbe forse un sapore meno gretto.
NATURA MORTA
Un altro giorno spremuto in fretta
impastato intero ‒ un grumo ‒
dentro tutto il tempo del mondo,
scolora appena fino alla linea curva
del cuore, un’arancia d’inverno
data in pasto alla noia, acida.
Quel rosso che mi raggiunge sempre
come un maledetto monito
– non sprecare ancora le tue ore
non buttarle via come chicchi
di neve succhiati a metà –
adesso è un tramonto oltre
il vetro appannato di ombre:
sul tavolo resta affilato
il ricordo dell’alba, l’ennesima cui
non ho dato peso abbastanza,
per questa mia voglia di essere niente
in pace, dimentico a volte che esistere
è camminare sul bordo sbeccato
dell’orizzonte, fuori da questa ovatta
di nido appassito, ruvida quanto basta
a perdere anche la pelle.
DITA DI MOLLICA
Ci sono giorni da rosicchiare
Ci sono giorni da rosicchiare
come pane duro
‒ dal bordo annerito dell’alba
lungo la crosta delle assenze ‒
un boccone che raschia voce e
lascia segno tra le palpebre, umide.
Ci sono giorni come mattoncini
freddi d’acqua, in questa nostra casa
che ha l’eco del tuo odore e
alle finestre tende candide di nuvola,
che spiovono rigando guance
dove hai lasciato briciole di baci
e tra le labbra una promessa
di lievito e di sale, il terrore autentico
di perdersi fuori da una porta
senza più cardini e dai tuoi pensieri
chiusi a chiave, una serratura arrugginita e
svuotate le mie mani, le dita di mollica
da buttare ai pesci.
CON TUTTA LA MIA VOGLIA DI NON ESSERCI
Io non volevo questo tempo
che mi divora i fianchi, in cui le ore
impazzano al ritmo dei tuoi passi
avanti e indietro, io non volevo
il ponte degli incontri popolato
di bellezza dove i nostri occhi
si danno appuntamento e fanno
festa prima di ogni abbraccio,
io non volevo questa bestia
che chiamo desiderio farsi cucciolo
e poi famelica sbranarmi,
i pensieri sgretolati inconcludenti
e il tuo nome al centro in prima fila,
la statua ebete che sono
quando ti osservo muoverti
dentro la cruna dei miei silenzi
‒ ancora è una preghiera ‒
io non volevo stomaco contratto
battito da febbre il corpo che fa male
rimodellarsi di creta sotto le tue mani,
io non la voglio questa attesa
che mi precipita nel vuoto
quando non ci sei e tutti i demoni
della paura e dell’insicurezza
mi ripetono in cerchio che sono persa,
non ho più un alibi una scusa lo straccio
di una resa senza condizioni,
con tutta la mia voglia di non esserci
con tutta la mia voglia di non esserci
guarda come sono immobile,
adesso, guardami rimpicciolita
di una vita intera: sto tutta nel palmo
della tua mano sinistra. Sii gentile,
abbi cura di questo cuore
che non ti vuole appartenere
e ti appartiene, nonostante tutto.
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