Maria Teresa Coppola - Ragionare d'amore
Maria
Teresa Coppola è di origine salentina ma vive e lavora a
Pisa. La poesia le è familiare sin da piccola, grazie a poeti e artisti
che frequentano la sua casa, come Girolamo Comi, fondatore
dell’Accademia Salentina, Alfonso Gatto, Diego Valeri, Arturo Onofri, Oreste
Macrì, Vincenzo Ciardo e, più tardi, il poeta e critico d’arte Raffaele
Carrieri.
Esordisce nel 2023 con la
raccolta poetica Sottovoce - Edizioni Helicon, con cui vince
il Premio speciale della giuria al Premio Casentino 2023, per la raffinatezza e
i toni delicati dei versi. Nello stesso anno pubblica la silloge C'è
di più (Aletti editore), dove si dimostra capace di vibrante e limpida poesia in un colloquio serrato con l’amato, che lentamente però sembra trasformarsi in un colloquio intimo tra un "Io" consapevole e razionale e un "Es" più
oscuro e misterioso. Con questo secondo libro Maria Teresa si classifica seconda al Premio Caravaggio. Nel
2025, pubblicato da Helicon, esce Cielo abbastanza, in cui esprime la sua
natura poetica all'interno di un rapporto conflittuale
tra memoria, coscienza e sentimento. Infine nel 2025 pubblica con Puntoacapo
questo Ragioniamo d'amore, del quale si parlerà in questa nota.
Ragionare d’amore - Puntoacapo
2025
“Ragionare d’amore” è una
raccolta di poesie che Maria Teresa Coppola ha costruito con amore e sapienza
letteraria, rivelandosi poetessa di spessore e grande profondità. La bella
prefazione di Ivano Mugnaini ne coglie i punti essenziali, essendo, a
differenza di altre, non un inutile orpello che si può saltare senza danno, ma una
guida utile ad apprezzare i molteplici significati delle “stanze” in cui è suddiviso
il libro. Ma detta suddivisione è un assemblamento tematico niente affatto
rigido, poiché tutte le poesie dialogano tra loro in forma libera ma unitaria,
richiamandosi l’un l’altra in una struttura atemporale, contrassegnata, più che
dagli eventi, dai pensieri e dalle nostalgie, dalle aspettative e dalle paure,
in un dualismo di opposti che sono, insieme, pacificazione e inquietudine,
speranza e sofferenza.
Nella poesia d’esordio l’autrice
scrive che cento mani vorrebbe, e cento occhi, e cento versi, tutto per amore,
per cantare lui mentre si muta in ricordo, ed è questo che si ritrova effettivamente
nel libro: le cento mani dell’amore, i cento occhi della conoscenza, i cento
versi della poesia, e il rimpianto, la malinconia e il ricordo per qualcuno che
si allontana o qualcosa che si perde. Suggestioni, flash, versi su
cui tornare e poi ritornare per coglierne il non detto, sentirne il sapore
ambiguo e contraddittorio, scoprire l’odore di stanze, di pelle e di allegria
marina, per usare le parole di un suo verso.
Nella bellissima IV stanza
dedicata agli alberi, ai fiori e alle altre creature, si ritrova l’amore per il
creato, che è identificazione, canto, stupore. Per prima cosa gli alberi, nella
loro armonica connessione con gli altri elementi della natura, per la pioggia
che assorbono, restituendola come linfa vitale risalente fino alle foglie, per il calore del sole che trasformano in promesse di verde che risanano la terra
in un’unica connessione cosmica.
Per esprimere tutto
questo Maria Teresa evoca dalla mitologia egizia i nomi di Tefnut, dea
dell’equilibrio cosmico, umida e feconda, e di Sekmet, forza femminile
primordiale, ambivalente e misteriosa, che può infliggere e curare, signora
della guerra e della distruzione, ma anche della guarigione e della medicina; dalla
mitologia greca, Persefone, divinità anch’essa dalla doppia vita, dea degli
inferi e, insieme, della primavera, in un’ambiguità ossimorica che si
ripresenta poi in tutta la raccolta, e il kakemono, dalla tradizione
giapponese, come un cielo appeso alla parete a ispirare calma e riflessione.
E poi il mare,
immaginato come fiore d’acqua, e i verdi prati da “ritessere con lenzuola di
parole” (pag.86), e ancora il cielo, celebrato nelle sue stelle più
luminose, Arturo, Sirio, Vega e nelle sue costellazioni, Cassiopea, che
risplendono nonostante il buio portato da Erebo, figlio del Caos e fratello
della Notte, come spazio oscuro tra la Terra e l’Inferno, affinché la luce delle
stelle allontani la paura, prima che arrivi il sonno portato da Hypnos. (pag.89)
Poesia matura, dunque,
con versi densi e ricchi di rimandi, allusioni mistiche e mitologiche, efficaci
e insieme eccessivi, come deve essere l’amore e la passione erotizzante.
La ricerca stilistica e
la ricchezza di metafore rendono impegnativa la lettura, a volte a detrimento
dell’immediatezza, poiché parlare d’amore è difficile senza diventare banali, specie
quando si ama davvero e ci si sente vivi, anzi, traboccanti d’amore, ma parlarne
con distacco è cosa triste e sostanzialmente impossibile.
Questa stretta via Maria
Teresa Coppola la percorre con agile intelligenza e naturalezza, affilando il
taglio della passione in una vasta cultura e nell’innata vocazione alla poesia
che la rende capace di affascinare e sorprendere il lettore attento, grazie a
un cuore inquieto, sempre alla ricerca della perfezione del canto, e la bellezza
del verso: “C’è un posto dentro me…/dove mancano girasoli a indicarmi come
tradurre la luce i sillabe tollerabili”
Nella terza stanza si
parla invece dell’autunno, delle sue malinconie e le sue ombre e delle cento
piccole cose, testimoni di abbandoni e invincibili solitudini, e, per contrasto,
dei tanti “io” che la abitano e le danno coscienza di essere finalmente meno
fragile, senza più paura di rompersi.
Ma il cuore della raccolta è
nella seconda stanza, che lascio per ultima, perché in essa si parla direttamente
di quell’amore che il titolo promette. Un amore carnale e, insieme,
spirituale, con echi religiosi e mistici. Non a caso in un verso fondamentale viene
richiamato il canto d’amore per eccellenza, quello antichissimo delle sacre scritture,
il “Cantico dei cantici” dove si legge: “Il mio amato è per me e io per lui,
egli pascola il gregge tra i gigli.” (pag. 26), col suo carico di bellezza
che informa tutta la sezione, dove trionfa l’amore fisico e quello allegorico
con la ricchezza immaginifica della grande poesia “…coglimi all’alba /prima
che Hermes si svegli. / Non fermarti ai pistilli,/ inventa mani tenere ai
petali/e dolci di marmellata” (pag.28) e un eros, addolcito e nobilitato dalla
delicatezza di vesi ricchidi metafore: “…Il drago che abbruna in un
giorno /il bianco dei fiori grandi/ che
puoi nuotarci dentro/ nella coppa di neve e cedro/ vertigine e nausea,/ ritmo
fermo di ossigeno esausto, / che sfoglia l’uovo miracoloso,/ apparso appena
ieri./ Sì poche ore Eros ci assiste.” (pag32). E in maniera più diretta e carnale:
“Diventare per una volta, / noi/ sconfiggere la paura/ guarire la ferita/
sapere che la mia voce/ è la tua/ quando dice “ti amo”/ e incalza / “Non ti
sento,/ amami più forte” (pag.33)
Insomma un libro da
scoprire e che vale la pena leggere e conservare, per riassaporarlo poi più
volte, in cui i versi sono collocati in un tempo “altro” dove i contorni
sfumano nel sogno, nella nostalgia e nel disincanto di ciò che è andato perduto
e nella aspettativa di ciò che potrà venire.
Renato Fiorito
Roma, 14 ottobre 2025
Poesie
Cento mani
vorrei
per scalare la
luce
il tuo corpo
buio,
slacciarti le
scarpe
ed appenderle
al ramo più alto
dell’araucaria che
buca,
riaprire la finestra
sul tuo volto,
i lembi riaccostare
del dialogo
interrotto,
cucire il tempo
strappato
che d’ora in ora
ci allontana
in un istante
del respiro
infinito.
Cento occhi vorrei
per guadarti oltre,
cristallino e
incrollabile cuore,
statico-estatico
furore
di leggerti tutto
di nuovo,
come lavato di
pioggia,
immobile fissarti
come lupo a preda
in conversazione
di morte,
assolverti di
rispetto
e volgerti le
spalle.
Cento versi vorrei
In cui restare
distesa
Insieme al tuo
dolore,
catturare
l’eccedenza
interna che resiste
al tuo muto
mutarti in ricordo.
***
“Il mio amato è
per me e io per lui”
E il mio amore è
per sempre,
basta per due
anche quando non
mi basto.
Non aver paura,
non aver mai paura
di me.
So amarti anche da
sola, anche
nei giorni che non
mi puoi parlare
se non sai
a chi parlare d’amore.
La feluca o il
brigantino
armerò nei
pensieri
per seguirlo.
“Egli pascola il
gregge tra i gigli”
e io serbo per lui
frutti
di mandragore profumate
e resto sigillo sul
tuo braccio.
***
Non piangono gli
alberi.
Quasi spogli
ringraziano
L’umida cantilena
Della dea della
pioggia,
i cori delle
gocce,
premura di linfa delle
radici
sacre di silenzi e
presagi.
Risveglia Tefnut
archeologici strati
dove conserva
intatto
il calore buono
del sole,
dimentica il
respiro di fuoco
di Sekmet
e culla promesse
di verde,
risana gallerie di
lombrichi.
Aprendo gli occhi
sugli occhi lavati
del mattino,
ritorna lieve la
nostalgia
di lacrime che più
non mi soccorrono.
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