Nuove nomenclature e altre poesie
L’arcolaio
Nota di
Renato Fiorito
In “Nuove nomenclature e altre poesie” Annamaria Curci, sviluppa
in sei distinti capitoli stili e tematiche diverse, mostrando padronanza delle
tecniche espressive e raffinata capacità linguistica, il tutto tessuto col filo
sottile dell’ironia, quasi a suggerire l’idea che l’arte poetica è gioco
serissimo nel quale tutto si può dire, purché con rigore e scienza. Una poesia,
la sua, più mitteleuropea che mediterranea, più propensa all’analisi che al
pietismo, più fustigatrice di costumi che incline ai sentimentalismi da parata.
Fin dalla prima poesia, Sotto
coperta, Annamaria ci pone con durezza di fronte alla colpa della indifferenza
generalizzata verso le mille disuguaglianze sociali che le affermazioni di
solidarietà a buon mercato servono appena a mascherare, dato che “la coperta o il mantello dimezzato protegge
ancora solo la tua parte...” (pag,17).
La sua poetica infatti è scabra, graffia, mette a disagio per
lo sguardo tagliente che la pervade; essa non sollecita la mozione dei
sentimenti ma si posa gelida sugli espedienti auto-assolutori con cui cerchiamo
di giustificarci. Siamo davvero colpevoli? Possiamo fare qualcosa per cambiare?
Non lo so. Ma so che è compito del poeta illuminare squarci di verità e
impedire l’assuefazione al male, il pigro fluire delle coscienze obese verso un’indifferenza
infingarda. E questo Anna Maria Curci lo fa con la schietta determinazione di
chi preferisce la chiarezza dolorosa della verità alla mistificante
manipolazione e vuole essere certa che non sia fraintesa la sua verità.
Cosi arrivano le “Nuove
nomenclature”, quei termini cioè che pongono un velo tecnologico,
scientifico, economico tra noi e la realtà, per narcotizzare l’orrore e assolvere
da ogni responsabilità. Parole come “Assetto
economico”, “Clandestino”. “Flessibilità”,
“Nasdaq” “Rigore” ci propinano
una realtà neutrale, edulcorata, sufficientemente accettabile ma falsa.
Qui la critica di Anna Maria Curci è radicale, senza
compromessi, condita di fredda ironia, come se non valesse la pena accalorarsi
per qualcosa a cui non si può rimediare essendo le parole diventate ormai descrizione
sciatta del nulla, convenzioni senz’anima, imbroglio privo di senso. Il dialogo
socratico non serve più a fare emergere la verità, ma a mantenere in vita corpi
avvizziti, coaguli di interessi che si spartiscono le spoglie del mondo (pag
38).
Poesia concettuale e a volte oscura, dunque, ma mai
accademica o di pura esibizione, piuttosto poesia di rabbia lasciata decantare
affinché più preciso e doloroso sia il taglio inferto sulla corteccia delle
coscienze assuefatte. Operazione aristocratica e di resistenza che si consuma nella
ristretta cerchia di coloro che hanno ancora consuetudine con la parola e
capacità per coltivarla nel contesto di una società narcotizzata che non si
vuole più interrogare, preferendo risposte di comodo, appositamente preconfezionate
per lei.
Diversa struttura ha il capitolo “Staffetta”, magnifico e regale nella sua malinconia, nella pietà
per gli uomini, nell’attenzione per il gesto furtivo, reso eterno dall’intuizione
poetica. Qui il poeta si fa spettatore partecipe dell’avvicendarsi delle stagioni,
del trascorrere degli eventi sul palcoscenico del mondo.
Illuminata dal sole
autunnale si fa strada una fraternità asciutta, una nostalgia lieve che parla
di mercati affollati, di sguardi sfuggenti, di gesti intimi e commoventi, come,
ad esempio, in “Rosso Azerbaigian” quello di una mano che scosta i capelli e
ferma il pianto: “Se raccogli le cocche
dell’abito/rincorso tra banchi vecchi di città/e ti disseti assorta e scosti
piano i capelli/ pianto sospendi e acqueti”, a conferma della forza trasfiguratrice
della poesia che rende grande il piccolo e eterno il fuggevole.
È da citare anche “Sosta”,
che ha un incipit avvolgente: “E potrei
perdermi se vuoi nel verdeoro di un autunno affamato” e una vena sottile di
irrimediabile malinconia, che parla del tempo che consuma le cose, di calze
bucate e, con bella paronomasia, del filo del “rammendo”, che ricuce il passato: “Sfonda
la calza/ l’alluce impaziente./ Nel tascapane ho il filo del rammendo.// Mi
rammento di te/ voce vecchia e suadente/ e non ti seguo.”.
Poi vengono le quartine, gli endecasillabi, i settenari, l’esercitazione
scolastica, il virtuosismo da cultrice della lingua, animata dal desiderio di
ravvivare l’antica arte del verso, nella sua forma più classica e pura, e,
infine, i “canti dal silenzio”, di perfetta musicalità, che sono un’esortazione
a non avere fretta, a mettersi in ascolto dell’armonia silenziosa della natura e
partire da essa per ricostruire, senza paura della fatica e delle delusioni, la
nostra stessa armonia. (pag.93)
Poesia densa e ricca di stimoli, dunque, quella con cui Anna Maria
Curci combatte in solitaria battaglia, la parola spuria, le manipolazioni dei
falsi idoli che della confusione del linguaggio fanno il mantello sotto cui
nascondere il bottino, il desiderio bulimico di arricchimento, il comportamento
cinico e tracotante.
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