Simona Nobile è originaria di una terra che docilmente si distende tra Lombardia e Piemonte e trae da essa il
carattere riservato e operoso. Coltiva la passione per la poesia scrivendo
dove le capita, su fogli di carta sparsi, riciclati, vecchie agende, nell'ansia di cogliere in tempo le emozioni, fermare l’attimo, dare parole ai lampi che le attraversano
la mente. Poi lascia macerare i versi senza fretta, come si fa con il buon
vino, li rielabora, lucida le parole, ne perfeziona la musicalità e li rende
armoniosi, aiutata nell'opera di revisione dalla sua formazione
linguistica e letteraria.
Simona è infatti laureata in Lingue e Letterature
Straniere e ha conseguito un Master in Mass Media Studies. Ha lavorato in campo editoriale e in diverse istituzioni europee
(Parlamento europeo, Corte di Giustizia e Banca centrale europea). Attualmente è sceneggiatrice, story editor e tutor a livello internazionale. In particolare si dedica allo sviluppo di sceneggiature per il cinema e la televisione lavorando per diverse case di produzione, enti di formazione e fondi
di sviluppo e coproduzione europei. Docente di ‘Story Editing’
all’Università La Sapienza, ha fatto parte della Commissione per la
Cinematografia del MiBACT - Direzione Generale Cinema.
Della poesia dice di amare
“la capacità di afferrare, sradicare e ricongiungere la realtà, anche cruda,
implacabile, dove è possibile trovare un fondo di accoglienza, una sensuale
esperienza della vita.” Tra i suoi poeti preferiti ci sono Emily
Dickinson, per la forza della parola, e Alda Merini, per il suo traslare un
vissuto di folle normalità; ma le piacciono anche i poeti metafisici come John
Donne e Andrew Marvell, quelli ribelli e innovativi come Charles Baudelaire e
Arthur Rimbaud, e i ‘War Poets’ inglesi, tra cui, in particolare, Wilfred Owen.
Da questo coacervo di esperienze, sentimenti, passioni
e letture è nata la raccolta “La misura delle mani”, sua "opera prima" già sorprendentemente matura, equilibrata, essenziale.
La misura delle mani
Giuliano Ladolfi
Editore
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Nota di Renato Fiorito
“La misura delle mani” di Simona Nobile è una silloge di armoniosa
bellezza, ricca di forza creativa, di energia al femminile e amorevole
dedizione. Articolata in tre sezioni: “Madre”, “L’altrove”, “Naturalia”,
traccia un percorso a raggiera che dal chiuso di una stanza di ospedale si
allarga agli spazi aperti del mondo e poi all’intera natura.
Questo espandersi a cerchi concentrici, perfetti e leggeri che, partendo
dal punto di impatto del dolore, investono lentamente l’intera percezione del
mondo è l’aspetto che, ai miei occhi, rende speciale l'opera. Se non vi fosse
questa estensione sarebbe un libro ugualmente bello, ma limitato alla perdita
di senso che la malattia determina e non aperto alla scoperta di un nuovo
senso, inclusivo ed empatico, che invece qui viene rivelato.
Nella prima sezione, dedicata alla madre, si coglie, sin dai versi
introduttivi, la forza di un legame intenso, viscerale, insostituibile: “sei
l’aria che si fa leggera quando mi avvicino alla tua porta”.
Amore filiale che
si fa presto amore per la vita, per le piccole vittorie sul male, per ogni
attimo strappato alla resa. Rapporto d'amore insidiato dal tempo, dalla
malattia, eppure vivo, tenero e perciò struggente e denso di sollecitudine.
Diario di un male, dunque, delle parole che incespicano sulle labbra, delle forze che tradiscono, come fa la mano
che non risponde più agli stimoli, le gambe che reggono a fatica e i
capelli che dicono addio al
corpo e alla sua identità femminile, al suo ruolo di madre, di guida, di protezione:
Due mesi fa
ti ho vista perdere parole:
come i capelli
se ne erano andati nove mesi prima.
Mentre parlavi, loro cadevano
e noi sedevamo lì a guardarli andare via
in un pomeriggio quando
i rotolini delle bambole si staccano a grumi
e le sinapsi non arrivano fino in fondo.
Ho visto le parole farsi balbettii
e tu ed io che scivolavamo con loro:
stai lì distesa, ti tengo la mano
e nella notte sono lì con te
e tu mi chiedi del pigiama bello
che hai messo da parte per l’ospedale
e io capisco a stento, ma ti capisco…
il senso viaggia più del suono
e il mio esserci è più forte
della mia disperazione.
Quelle parole sono tornate oggi
come tornati sono i tuoi capelli
bianco-grigi azzurrati. (pag. 22)
“La misura delle mani” è nata così, come risultante di una profonda
riflessione sulla vita e la centralità del corpo, che emerge con
chiarezza proprio quando la malattia ne mette in discussione la scontata “normalità”. Perché è vero, la malattia cambia la prospettiva, dà nuovo senso alla percezione delle cose, ci lega a doppio filo alla corporalità quando ne sentiamo minacciata l’integrità.
Tuttavia, come si diceva, nella poesia di Simona, l’infermità non è solo
scissione, smarrimento di identità, ma anche acquisizione di una diversa coscienza
di sé. Nel ribaltamento delle abitudini si afferma un tempo circolare,
ritmato dalla ripetizione di atti imposti, dentro cui si costruisce una diversa
“normalità”, scissa dalla precedente, dove è centrale la lotta per
guarire, la volontà di ricucire il tessuto strappato, di tenere vivi i
ricordi, rammendare ciò che è stato franto.
Abbiamo ancora così tanto da dire.
Il passaggio di un filo
che esce ed entra da una trama
tessuto cotone nappa o lana:
ti arresti con la mano a volte ferma
a volte veloce entri ed esci.
Siamo passaggi di carta velina.
Risponderai ai miei appelli
fatti di ago e di filo.
Sono qui a pulire le carte dei miei ricordi.
Apro strade scoperte inattese di giorni e momenti.
Inattesa io…
Prove di esistenza.” (Pag.16)
“L’altrove” è la seconda sezione del libro che, a differenza della prima, tutta
compresa tra le pareti di una stanza d’ospedale, si apre al mondo e
all’incontro con gli altri. Il linguaggio si allarga, si contamina, diventa
internazionale. Un mondo più ampio si distende sotto le parole, senza però che
cambi lo sguardo, l’abbraccio alle persone e ai luoghi, l’attenzione affettuosa
e carnale.
Questa diversa prospettiva non è quindi disconnessa dalla prima perché il
mondo, anche quando si fa grande, trae significato dai dettagli che cadono
sotto i nostri sensi, vive del nostro vissuto. Una piccola schiera di
personaggi (Bissula, il cameriere, i calzolai, il conducente di bus) sono
disegnati con rapide pennellate impressioniste, ogni ricordo allude ad altro e
forma catene inanellate, stati d’animo, atmosfere, paesaggi. La percezione che ne
risulta è essenzialmente fisica, il coinvolgimento è quasi corporeo, la misura
è ancora quella delle mani, che prima sostenevano la sofferenza della mamma e che
ora percepiscono la realtà ampia del mondo con gesto amorevole e limpido.
Beve il caffè in una tazza blu
il conducente del bus da Heathrow a Victoria Station.
Nascosto dietro la pensilina della stazione,
capelli radi e taglio grigio,
Graham Greene defilato,
con la sigaretta sempre accesa.
Schivo, stacca il biglietto della corsa semplice
e sulla fronte rugosa spunta un sorriso.
Uniforme bianca e semi-detached house con giardino,
casetta di mattoni con la porta per il gatto,
la cena delle sei,
il porridge a colazione. Pag 36
***
Era la terra della pioggia
che soffiava nei temporali dai piedi scalzi,
pioggia battente dai palazzi di vetro
fatti di memo, allowance e classement vertical:
la casa dei pezzi di Ikea,
i tè delle quattro, caffè rompistomaco,
quando un cameriere ti passava sotto banco
quattro pasticcini lasciati dal Board,
retrogusto di casa,
Emigrato con i krauti e i pezzi di pioggia.
Lui non tornava mai a casa,
felice con le gocce che battevano sui vetri. “ pag. 34
E infine “Naturalia”, vale a dire la natura che ci trascende e ci impasta e
fa da sfondo a tutte le battaglie. Come in Vittorio Sereni la sua percezione è
misurata dalle mani, poiché in fondo si conosce solo quello che le mani e la
pelle ci dicono: "Queste tue mani a difesa di te:/ mi fanno sera sul
viso./ Quando lente le schiudi, là davanti/ la città è quell'arco di
fuoco." (da Frontiera),
È nella misura delle cinque dita
il ponte di ferro che lega questo passaggio.
Il sole sorge sulla mia Africa,
anche se il gelo attorciglia
le foglie nel primo mattino
e la terra aspetta il tepore
tranquillo per riscaldarsi.
Siamo in cima alla collina:
sotto una distesa di prati imbiancati
di brina montata a neve.
Spuma ghiacciata aspetta la luce.
Ci siamo noi e bastiamo.
Abbiamo bisogno di aprirci al mondo,
cristalli in attesa di sciogliersi,
il bianco che colora il grigio del cielo
e il polveroso marrone
della terra inzuppata,
senza cappotto
alla ricerca del caldo dentro le tasche. (pag. 40)
Cosi di rimando in rimando, di immagine in immagine si va avanti fino alla fine, in una ricchezza di percezioni, di linguaggi, di sensibilità
che arricchiscono il lettore e lo spingono a terminare la lettura e poi a tornare
indietro per assaporare meglio senza perdersi la delicatezza dei dettagli.
Anche quando la festa è finita,
i sogni tornano a cantare
nei giorni di attese allungate dal tempo.
Breve alternanza di luce e di buio,
il giorno incespica,
matassa sempre uguale
che si allunga e si sbroglia:
il gusto dell’essere, il senso di esistere.
Quando inizia la festa, sei lì a far quadrare
pensieri da giocoliere,
aspettative da riesumare,
passato da rispettare.
E poi, quando la festa è finita,
speri ancora che i sogni ritornino a cantare. (pag.42)
E infine i colori del lago, la sua pace, i rumori tenui, i canti infiniti
della natura. Tutto quello che abbiamo pensato, che abbiamo sofferto, si
pacifica nell’azzurro silente. È la vita, è l’eterno, è così.
Le sagome dei monti incespicano nell’acqua,
tonalità di pastello,
contorni sfumati.
Una patina ricopre il blu violaceo
del lago che corre
dall’una all’altra insenatura.
Nello specchio liquido
l’isola si affaccia,
preghiera attorno al monastero.
Sulla via del silenzio,
a ogni angolo un pensiero. (Pag.46)
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