La poesia vista dagli autori
Davide Rondoni
Stralcio dell'intervista a Davide Rondoni
(L'intervista completa è sul n.7 di Menabò - febbraio 2021)
La rivista è ordinabile a Terra d'ulivi edizioni
“Non c'è cosa più stupida che definire le persone invece di ascoltarle”
D. Ci si chiede spesso quale funzione abbia la poesia. Le risposte possibili sono molteplici: da quelle che le attribuiscono il potere taumaturgico di trasformare in armonia e bellezza le brutture del mondo a quelle che le negano ogni utilità. La risposta più dissacrante l’ho trovata in un verso dell’australiano Les Murray: “Perché scrivere poesia? per essere stranamente/ disoccupati. per i mal di testa indolori da sfruttare/…” Tra questi due estremi dove colloca la sua risposta?
R. Che bello che citi Les Murray. Les era un geniaccio. L'ho conosciuto e abbiamo fatto un paio di letture insieme. Le sue poesie e i suoi saggi sono tra i più belli del Secondo Novecento. Pensa cose strane, dicevano di lui gli altri poeti più in linea col pensiero dominante, ma lui era un genio, loro no. E quindi la sua apparente "trovata" la preferisco rispetto alla retorica della prima definizione che pur ha qualche traccia di vero. Il fatto è che la poesia non serve a niente, ma a quel niente che appartiene alle cose inutili, che appunto non "servono a niente" e che perciò danno senso alla vita. Nel senso che è incommensurabile ciò a cui servono... A che serve l'amicizia vera, quanto vale? a che serve il dolore, a che serve un bacio? Come lo misuriamo? L'ho scritto mi pare in un libro che si chiama "L'allodola e il fuoco". Lì puoi trovare cose su questa faccenda.
D. Il suo ultimo libro “Quasi un paradiso” è un atto d’amore verso la Romagna, un viaggio attraverso luoghi, personaggi e ricordi conditi col gusto per la battuta iperbolica e a volte salace che, per qualche verso, fa pensare alle straordinarie atmosfere felliniane di Amarcord. Quali affinità sente con il grande regista riminese?
R. In realtà quasi nessuna. Certo, le atmosfere rievocate da quel film appartengono un po' a tutti i romagnoli e a chi pensa di conoscerli, ê una bella cartolina come quelle dei delfini ammaestrati che hanno messo, bellissima, in copertina al libro. Emblemi, luoghi comuni nel senso non solo negativo del termine. Ma per capirli davvero, per non fermarsi alle cartoline occorrono sondaggi e veri acuti e trascendenze che Fellini non aveva e non ha avuto interesse a fare, ormai lui era barocco-romano-occultista, oltre che essere nato nella "grande Romagna" e non nel cuore della "piccola Romagna" come spiego nel libro. Meglio vedere le statue di Ilario Fioravanti, le poesie di Lello Baldini, di Nino Pedretti, di Tolmino Baldassarri, di Giovanni Nadiani. E il mio libro rovescia un po' di quei luoghi comuni, penetrandoli, guardando l'altra parte dell'arazzo. Fellini con la Romagna sta un po' come i gladiatori travestiti sui fori imperiali a Roma...
R. Non so bene da quale costellazione o albero vengo, tanti sono gli innesti, le comete, il confondersi di incontri e collisioni, certo la lezione di Luzi (e Betocchi dietro di lui) e di Testori hanno giovato a non "credere" nella letteratura se non come in una meravigliosa e limitata arte, non come a un mito o, peggio, a un idolo. Da qui forse quel che chiami "lontananza dalla retorica" o meglio assunzione di una retorica intesa come arte della parola che cerca di stare, come diceva Luzi della poesia, "pari alla vita". E questo costa tanto lavoro e spoliazione da tante seduzioni anche della critica o del consenso.
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